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Poco tempo fa un giornalista chiese a Valerie Trebeljahr, cantante dei tedeschi Lali Puna, quale fosse la sua definizione di “pop”. Lei rispose con difficoltà, ma dando un’ottima chiave di lettura per la sua musica: “La base di partenza è la melodia, ma a noi piace scomporla aggiungendo qualcosa, disturbandola; ci piacerebbe che, dopo molti ascolti, la canzone fosse ancora in grado di svelare particolari nascosti”.
Giunti al terzo album (bel traguardo, per quello che doveva essere solo un side-project dei Notwist), i Lali Puna si dimostrano una delle creature più affascinanti del pop contemporaneo: le loro melodie evanescenti sono accostate, in “Faking the books”, a ritmiche più sostenute, finanche a chitarre ben più decise che in passato. Le sorprese iniziano subito dopo le morbide reiterazioni vocali della title-track ; “Call 1-800-fear” cresce fino al ritornello, dove compaiono le chitarre; ancora più dinamica appare l’ottima, agitata, “Micronomic”, dove i beats annullano ogni pretesa di linearità; più nuda e guidata dalle tastiere è “Small things”, perfetta nell’abbandonarsi ai glitches e ai ritmi sintetici, nel lasciarli protagonisti.
“Faking the books” è più estremo, e allo stesso modo più immediato dei predecessori, anche dal punto di vista delle liriche: è l’album più politico dei Lali Puna, dove “la teoria del mondo spaventoso” è asciugata e resa più essenziale da parole che assomiglino a slogan; come Valerie riesca a non gridarli come farebbe chiunque altro, ma a renderli così suadenti e funzionali alle trame strumentali, beh, è un piccolo miracolo. Hanno tutte le ragioni di essere vigili e arrabbiati, i Lali Puna, e anche la musica lo sottolinea: la marziale “B-movie”, ad esempio, retta dal basso e da una batteria secca, su cui si appoggiano la voce distorta e le tastiere; la chitarra che cerca un proprio spazio nelle trame di “People I know”; quella “Grin and bear” che, retta su due accordi, ringrazia devota i New Order; e, soprattutto, la fantastica “Left handed” (già edita in un 12” lo scorso anno e qui rimaneggiata) con la sua voce robotica, il lieve pizzicato d’archi, l’esplosione sonica del ritornello. “Alienation” è l’unico brano inutile di un disco che si chiude, sogno sospinto da una voce distante eppure caldissima, sulle note dolci di “Crawling by numbers”.
In attesa che la band prenda una direzione più decisa (ma perché dovrebbe, poi?), “Faking the books” non lascia spazio a dubbio alcuno: geometricamente glaciale ma dotato di anima, tanto gentile nei suoni quanto violento (e sensato) in quello che dice, è l’ennesimo episodio splendido di una delle cose più belle che siano accadute al pop negli ultimi dieci anni.