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Il primo nome a cui si collega questo esordio degli Ultraviolet Makes Me Sick è quello dei Giardini di Mirò. Come per gli autori di “Rise and Fall of Academic Drifting” ecco intrecci di chitarre ipnotici, esplosioni sonore che sbucano tra momenti di quiete, crescendo irresistibili. Insomma, quello che la critica ha etichettato come post-rock, in questo caso quello di scuola chitarristica suonato da gruppi come Slint, Mogway o June of ‘44.
Ma c’è non solo quello in “No freeway, no plan, no trees no ghost”. Si entra nel disco grazie agli accordi avvolgenti dello strumentale “This is the season for the rest, she said” e subito arriva la prima scossa, “Counter Clockwise”, brano elettrico in grado di trovare una carica emotiva rara in questi territori musicali.
Di seguito appare più complicata e meno convincente “Intimacy is jazz, disturbed is art”, che tra il ripetersi degli arpeggi delle chitarre sembra smarrire la direzione musicale. Ma nel complesso gli Ultraviolet Makes Me Sick riescono a tenere a distanza i cliché che hanno impoverito tante produzioni post-rock degli ultimi anni, quella tendenza a suonare inaccessibili e difficili a tutti i costi che porta dritto alla noia. La formazione di Pavia riesce invece a far emergere la propria ispirazione, suonando diretta e concisa in molti brani, innanzitutto in “Counter Clockwise”, come si è detto, e poi in “A two headed coin”, che inizia con la dolcezza di una melodia quieta e poi sfocia in una coda rabbiosa.
Ma il gruppo convince anche nei due strumentali “Brothers fallen near allen” e “Overrexposed”, che mostrano ambientazioni notturne ricche di suggestioni. Il vertice di queste atmosfere lo offre forse il brano che porta il titolo del disco, soltanto una chitarra e il suono di una bellissima armonica a ricordare il West di Morricone.