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Il secondo passo discografico dei veneti Renoir è, dispiace dirlo, di una pochezza imbarazzante. Il loro tentativo di concentrarsi maggiormente sulla forma-canzone naufraga in un limbo che vorrebbe essere tra gli Afterhours pop di “Non è per sempre” (ma i quattro non hanno le imprevedibili asperità, nè la capacità di disturbare la melodia, della band di Manuel Agnelli) e “Orchidea porpora” di Lara Martelli (senza averne la ricercatezza poetica né la sensibilità), finendo così per suonare chitarristici senza forza, melodici senza orecchiabilità.
E così, se le liriche sono tutte tese ad esprimere incertezza verso il futuro (la Terra che, ineluttabile, scorre verso Vega), i Renoir avrebbero fatto meglio ad occuparsi con più precisione, e con maggiori idee, del loro presente musicale: le chitarre vorrebbero essere potenti ma non ci riescono, i testi vorrebbero avere qualche velleità e invece sono banali e poco curati (in “Vega” arriviamo anche allo strafalcione grammaticale!), la voce è spesso in primo piano ma altrettanto spesso non è perfettamente intonata. Insomma: un mezzo disastro, da cui si salva poco.
Il robusto rock tecnologico di marca Subsonica di “L’ultima sera”, ad esempio. Gli inserti di piano Rhodes in “Porpora”. La pacata “Cotone”, che mischia sonorità acustiche elettroniche come avrebbero potuto fare i bravi Alibìa: decisamente la traccia migliore dell’album, apprezzabile se non ci fossimo innervositi per ciò che abbiamo ascoltato prima. Quando ci si trova davanti a un album che vorrebbe essere indie rock ma fa rimpiangere Le Vibrazioni…beh, non è davvero un buon segno.