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di Daniele Paletta
La macchina mi guida lenta nella campagna, aggira il traffico, mi immerge in un verde invaso da ville gigantesche, che grondano ricchezza da lontano. Imola arriva di colpo, l’immersione nel caos è repentina e mi frastorna. Attorno a me, animali da festival. Banchetti freak. Ambulanti sfiancati dal caldo. Tatuaggi bellissimi. Fiumi di birra e di gente, pance, pantaloni oversize, magliette di gruppi rock, pelle, grottesche spose dark accaldate.
Un solerte addetto alla sicurezza mi invita ad entrare dall’ingresso stampa, facendomi fare il doppio giro dell’autodromo a piedi; nel backstage incontro il biondino dei The Calling, a pochi passi da me: l’occasione di farlo tacere per sempre mi sfugge, troppo tardi. Mi piazzo davanti al palco ed è proprio lui a salire, e al suo gruppo (e al suo rockettino stracciamutande adolescenti) dedico tutta la mia indifferenza.
Inizio a risvegliarmi davanti agli Starsailor, che smontano i miei pregiudizi e la mia delusione davanti a un disco mediocre come “Silence is easy” regalando un buon concerto: via il pianoforte, chitarre stratificate ed una voce incredibilmente emotiva mi fanno passare una buona mezz’ora, soprattutto quando le canzoni sono quelle di “Love is here”.
La mia adorata PJ Harvey si presenta con una mise da urlo: vestitino giallo e tacco a spillo fuxia, imbraccia la chitarra e parte a razzo con la title track mancata dell’ultimo disco, per poi aggredire con tutta la sua forza una stratosferica “Meet ze monsta”. È un inizio straordinario, la sensazione è che Polly Jean oggi sia una forza della natura, splendida e sensuale in “The letter”, frontalmente sfacciata in “Big exit”, furiosa ad arte in “Who the fuck?”. Ma non può reggere a questi ritmi e se ne accorge tardi. La band non è alla sua altezza, e non rende giustizia a vecchie glorie come “Dress”, “Victory” e “Down by the water”. Il pubblico si distrae, l’intensità cala (anche la nuova “Shame” non convince del tutto dal vivo, mentre su disco è magnifica) e alla fine Polly prende anche un po’ di stecche su “Cat on the wall” e “The whores hustler and the hustlers whore”. A caldo, la sua performance mi è sembrata splendida; a mente fredda una mezza delusione. Immagino che la verità stia nel mezzo.
di Raffaele Meale
E’ abbastanza curioso notare come l’evento musicale dell’estate festivaliera italiana sia scivolato via tra le 18.30 e le 19.30, orario decisamente anonimo. E’ ancora giorno quando i Pixies fanno il loro ingresso sul palco sistemato all’interno dell’autodromo di Imola: una moltitudine di persone ha già preso posizione all’interno dell’area ma il sold out è ancora al di là da venire.
Se nelle prime file si sono assiepati i fans adoranti della band nelle retrovie si respira un’aria più disinteressata tra persone che vedono il ritorno in scena della band di Boston soprattutto come un ulteriore intralcio ai piatti forti della serata. L’attacco di Black Francis – quanto è stato atteso il ritorno a questo pseudonimo! – e compagnia è folgorante, con una versione tirata di “U-Mass”, unico brano in scaletta non proveniente da “Surfer Rosa” e “Doolittle” insieme ad una delicata e riposante “In Heaven (Lady in the Radiator Song)” regalata dal corpulento leader alla voce di Kim Deal.
I Pixies sono venuti a Imola per suonare e non si perdono in chiacchiere con il pubblico, inanellando un pezzo dopo l’altro. La pulizia con la quale vengono presentati i brani è strabiliante, le voci di Francis e Deal si mescolano splendidamente, i riff e i cambi di ritmo vengono rispettati con estrema perizia: sembra impossibile che questi quattro pazzoidi si siano appena riuniti dopo più di dieci anni di assenza dalle scene. Un problema alle casse rimanda i volumi sfalsati per tre/quattro brani, ma è un problema che scompare di fronte alla furia scatenata che sprigionano le versioni live di “River Euphrates”, “Crackity Jones” e “Isla de Incanta”.
Il pubblico inizia a scaldarsi poco alla volta, neanche i più scettici riescono a resistere alla frenesia di “Debaser”, alla schizofrenia di “Vamos” perfettamente a metà tra ballata folk e reminiscenze soniche (con Joey Santiago impegnato a frust(r)are la sua chitarra con una bacchetta), alla magniloquenza di “Monkey Gone to Heaven”, alla dolcezza ironica di “Gigantic” dominata dalla voce di Kim Deal.
Nonostante la fama di egocentrico accentratore che ha sempre contraddistinto Black Francis ogni membro della band ha la sua occasione di gloria: Kim Deal domina la scena con il suo basso corposo e con i suoi controcanti sempre perfettamente intonati (particolare non indifferente se si considera che la sua voce deve spesso e volentieri interagire con le urla disperate di Francis), Joey Santiago interloquisce con i suoi riff inconfondibili e dona profondità ai brani con continui passaggi da pulito a distorto, David Lovering – con tanto di maglietta dell’Italia con il suo nome stampato sopra – è il metronomo della situazione.
E poi, ovviamente, il resto è un Black Francis in forma a dir poco smagliante: la voce non perde un colpo, le sue schitarrate ritmiche sono sempre puntuali. Quella sua aria naif da classico bidello statunitense acquista sul palco una forma statuaria, quasi monolitica, l’interpretazione di “Hey” e “Caribou” è da spellarsi le mani. E quando dopo un’ora di concerto vengono presentate in bella sequenza “Here Comes Your Man” e una dolente e biascicata “Where is My Mind?” la risposta del pubblico è un’ovazione senza fine. Talmente sentita da sorprendere gli stessi Pixies che si guardano sorridendo e decidono di scattarsi foto per immortalare questo momento.
E’ bastata un’ora di musica per far cambiare idea anche ai più scettici. E’ bastata un’ora di musica per rendere chiaro a tutti come fossero loro l’evento della serata. Anche se si sono congedati tra gli ultimi lampi di sole. O forse soprattutto per questo: dopotutto “in the Sleepy West of the Woody East” non sono gli eroi ad allontanarsi al tramonto?
Brani tratti da “Surfer Rosa & Come on Pilgrim”:
· Bone Machine
· Something Against You
· Broken Face
· Gigantic
· River Euphrates
· Where is My Mind?
· Vamos
· Caribou
· Isla de Encanta
Brani tratti da “Doolittle”:
· Debaser
· Tame
· Wave of Mutilation
· I Bleed
· Here Comes Your Man
· Dead
· Monkey Gone to Heaven
· Crackity Jones
· Hey
· Gouge Away
Brani tratti da “Trompe le Monde”:
· U-Mass
B-Side:
· In Heaven (Lady in the Radiator Song)
Robert Smith non è propriamente un autore che si può definire avanguardista. Nel corso degli anni lo abbiamo visto proseguire cocciutamente per la sua strada, a volte mostrando la vecchia scorza dark, più spesso dirazzando gioiosamente verso ipotesi pop. Comunque lo abbiamo visto rimanere in pista, continuando imperterrito a comporre. E proprio in occasione del lancio dell’ultima fatica dei Cure la band ritorna sulle scene scorrazzando per il bel paese.
L’ambito palco di Imola è dunque l’occasione per testare i nuovi brani davanti a un pubblico folto. Chi ben conosce l’attività concertistica di Smith ha fissi nella memoria i ricordi di esibizioni-fiume, happening capaci di avvicinarsi alle tre ore di durata; questo l’Heineken Jammin’ Festival, nei suoi ritmi serrati, non può permetterlo, inficiando come vedremo buona parte dell’esibizione.
I brani tratti dall’ultimo lavoro non convincono appieno, mostrando ben presto la corda. Ripetitività dispensata in lunghe e languide ballate, con i riflessi dark oramai annacquati e la voce del leader che resta l’unico motivo di interesse. Ovviamente bisogna aspettare la verifica in studio, ma a un primo ascolto l’impressione è quella di trovarsi di fronte a canzoni prive di alcuna verve e, il che sarebbe abbastanza grave, prive di una reale motivazione artistica. Un’ispirazione latitante che sembra ravvivarsi solo in un brano, nel quale la fusione degli strumenti si fa meno monotona e la voce di Smith torna a vibrare come in passato.
Anche il pubblico più affezionato accoglie tiepidamente le nuove composizioni, in attesa di tornare ad assaporare i classici che hanno reso celebre il nome del gruppo. Classici che vengono distillati con un’avarizia inconsueta, ma che dimostrano definitivamente l’eccezionale statura live della band. Tra una memorabile “Pictures of You” e una “Push” ai limiti della perfezione c’è spazio e tempo per emozionarsi, lasciandosi condurre in atmosfere lugubri e calde, strazianti e gotiche (laddove riprese di brani come “Inbetween Days” e “Just Like Heaven” mostrano il lato più splendidamente pop della band). Tracce di maledettismo contemporaneo, glamour funebre e disperante.
Nel ritorno sul palco finale c’è spazio per le tastiere epiche di “Play for Today”, fino a concludere tutto in una versione dilatata di “A Forest” espansa in una serie di assoli e di fraseggi fino all’apoteosi del pubblico a tenere la ritmica del basso con il battito di mani. Un modo perfetto per concludere una performances buona ma costretta in un lasso di tempo non adatto all’enfasi concertistica della band. Nessuno voleva un concerto da greatest hits, nessuno pensava di assistere ad un’esibizione promozionale: il tutto, mal calibrato, risulta monco e non completamente soddisfacente.
Scaletta:
Lost
Fascination Street
Before Three
The End of the World
Lovesong
Push
Inbetween Days
Just Like Heaven
Jupiter Crash
Pictures of You
Us or Them
Maybe Someday
From the Edge of the Deep Green Sea
alt.end
One Hundred Years
Disintegration
The Promise
Bis:
Play for Today
A Forest
25 giugno 2004