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“Echoes” è uno di quei dischi nati per dividere. Un capolavoro annunciato, come hanno annunciato le voci circolate prima della sua uscita, un album in grado di fondere, finalmente, tensione rock e ritmiche dance, un po’ come avevano fatto in un altro contesto i Primal Scream di “Screamedelica”.
Dopo l’uscita “Echoes” ha ricevuto sì critiche eccellenti, ma anche sorrisi di circostanza e voci che lo hanno bollato più che altro come un’abile operazione pubblicitaria. La verità dipende forse dal punto da cui osservate il disco. Da un lato non rivoluziona la musica contemporanea come era stato annunciato. I punti di riferimento sono chiari, la voce di Luke Jenner, come è stato notato praticamente da tutti i critici, ricalca le tonalità acute di Robert Smith dei Cure. Ed è vero che il funky tagliente di cui i Rapture riempiono la loro musica è figlio della new wave, Talking Heads su tutti.
Allo stesso tempo i Rapture riescono ad amalgamare il tutto in dodici brani pieni di urgenza e scossi da ritmiche incessanti, ringraziando la collaborazione con i produttori DFA, che hanno plasmato il loro suono spingendolo verso territori più vicini all’elettronica e alla dance. Si ascolti, ad esempio, il brano che ha cambiato il corso della carriera dei Rapture, “House of Jealous Lovers”, che mostra un clima serrato che sa di anfetamina.
Spesso “Echoes” si muove costeggiando territori vicini alla dance, “I Need Your Love” oltre alla suddetta “House of Jealous Lovers”, tra chitarre essenziali, elettronica fredda e qualche dissonanza.
Il gruppo dà il meglio di sé quando mischia le ritmiche funky di scuola Talking Heads con un’energia figlia dell’elettronica e del rock indipendente degli ultimi anni. Le note intricate di “The Coming of Spring”, “Killing” e “Echoes” sono lì a dimostrarlo, così come fa “Heaven”, impreziosita dal geniale stacco vocale del ritornello.
Trasmettono una tensione notevole, partendo da “Olio”, dove pochi accordi di piano brillano su una tessitura nervosa, e proseguendo in “Sister Savior”, in cui chitarre affilate e ritmica serrata si incrociano alla perfezione.
La stranezza è che arrivino i brani meno vicini all’elettronica a chiudere un disco del genere. Prima “Love Is All”, un omaggio neanche troppo nascosto ai Big Star, e subito dopo “Infatuation”, ballata dall’aria disturbata alla maniera dei Radiohead di “OK Computer”.