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Ciò che mi convince a spingermi da Lecce fino all’irraggiungibile e altrimenti sconosciuta Caivano è proprio la possibilità di vedere sullo stesso palco, e nella stessa serata, la triade Giovanni Lindo Ferretti/Manuel Agnelli/Cristiano Godano. Il primo non ha certamente bisogno di ulteriori sfide, ha ormai la mentalità di chi ha scritto indelebilmente il proprio nome nella storia del rock nostrano e percorre nuove strade (il PASSATO). Per gli altri due la questione è diversa, entrambi fanno parte del presente, ma chi reciterà il ruolo di capofila per il futuro? Probabilmente, per motivi puramente anagrafici, né i Marlene né gli Afterhours, ma per questa sera la piccola sfida c’è ed è nell’aria. E’ inutile nascondere l’inevitabile peso del raffronto.
Arrivo mentre gli Afterhours ultimano il soundcheck pomeridiano. Sono i primi a provare quindi concluderanno loro. Tocca ai Marlene (individuo Cristiano con una sgargiante camicia rosa-giroditalia, sbirciando dal cancello dello stadio ). Sembra già in vena, voce già calda e pronta, l’illusione di “Trasudamerica” che alla fine poi avremmo sentito solo allora, mentre “Ineluttabile”, “Cara è la fine” e “Ci Siamo Amati” verranno effettivamente suonate.
Alla fine del soundcheck dei P.G.R., finalmente si aprono i cancelli. Facendo slalom fra agguerritissime sbrodoline (termine del gergo degli ambienti kuntzici, usato per definire le rappresentanti del gentil sesso che vanno ai concerti attratte, in primo luogo, dal fascino del frontman della band cuneese), riesco a raggiungere con scatto da centometrista l’ideale meta della transenna (con un percorso che ho studiato, individuando possibili ostacoli e traiettorie durante l’attesa pre-apertura dei cancelli).
Aprono, com’era stato annunciato i P.G.R. o meglio i P.G.G.G.R. (Però Giovanni, Giorgio, Gianni Resistono), come annuncia un brano dell’ultimo album, escluso dalla scaletta forse per non scadere nell’autocelebrazione. I tre reduci dei CCCP / CSI resistono eccome. Sia nei pezzi recenti che nei classici dei bei tempi andati. Dall’apertura poderosa del basso distorto di “Narko’s” alla nuova “Casi Difficili” (introdotta da un’affascinante rielaborazione di Tammurriata Nera che infiamma la maggioranza campana del pubblico), i classici “Forma e Sostanza”, “Tu Menti” e “A tratti” fino al finale corale di “Unità di Produzione”: impossibile non urlare Tabula Rasa Elettrificata.
Un appunto sul look dei “resistenti”. Giovanni si presenta completamente vestito di nero in stile-becchino con calzino bianco di travoltiana memoria, il trasandato Maroccolo (talent-scout proprio dei Marlene) versione Guccini con barba immancabilmente incolta, Giorgio Canali decisamente meno pittoresco ma decisivo (unica chitarra, controcoro e, anche se c’entra poco con la serata, produttore del primo album dei Verdena). Il batterista, incazzatassimo, sembra Manuel Agnelli quando ancora aveva il capello lungo e sciolto, e poi la ballerina (cugina di Lindo) che con movimenti quasi robotici accompagna un paio di canzoni. Si dimena freneticamente. Poi rallenta. Sale sugli amplificatori in un improvvisato equilibrismo. Poi salta come una protagonista di un cartone giapponese e lancia caramelle al pubblico. Pittoresco. Una serata che promette bene.
E arriva il turno dei Marlene. Si presentano con la solita riservatezza da gruppo sconosciuto e con l’eleganza riassumibile nell’accoppiata camicetta/stivaletto bianco di Cristiano e i completi scuri, già noti per i fan più accaniti, degli altri tre componenti. Partenza che non avrebbe bisogno di commenti con “Ineluttabile”. Un brano non ancora storia come quelli dei PGR (forse perchè ha solo 5 anni) ma di un’amara dolcezza (in testo e sonorità) impareggiabile. Prima sorpresa: la frenetica “Le Putte”, ripescata anch’essa da “Ho Ucciso Paranoia”. Cristiano, come da sua prerogativa di qualche anno fa, torna a urlare. L’approccio è inaspettatamente aggressivo. I Marlene, sembra chiaro, non hanno in mente una serata di quiete e introspezione come si poteva sperare/temere (dipende sempre dai punti di vista) dopo l’uscita del pacato EP “Fingendo La Poesia”.
Tutti aspettano le due nuove cover e invece arrivano “Aurora” e “Ci Siamo Amati”. Le fasi strumentali al livello dei migliori Sonic Youth, i finali psichedelici e accuratamente prolungati. Loro si divertono e di conseguenza anche noi, nonostante lo choc iniziale. Prendiamo coraggio e iniziamo a chiedere qualche pezzo dall’ormai retrogusto sonico. Non l’avessimo mai fatto che subito arriva la prima sosta: “Notte”. Ci voleva. Anche per la gioia di chi, come la mia ragazza, ha imparato ad apprezzare i Marlene con i brani meno tirati. Svolta tranquilla della serata? Macchè. Cristiano attacca subito “Il Vile”. Si stacca un filo. Se la ride: “Si rifà”. “Vai che esce meglio!”, urlo io, trascinato da un’inconscia carica emotiva, e infatti esce meglio. A seguire i consigli cosa succede. Al secondo ritornello anche chi li ha conosciuti grazie a Skin, o non li conosce proprio, urlerà “Onorate il vile!”.
Riccardo, che con Luca e Dan sostiene gli eccessi di Cristiano impugna la bacchetta usata per introdurre l’attesissima “Sonica”, parte un boato, si intuiscono le prime note di “Ape Regina”. Altro boato. Più forte. Alla fine dell’arpeggio tutti pronti a urlare “Sono lontano”. L’ex-orso, per stasera vestito soltanto da Nick Cave, chiede il silenzio. Ed ecco la martellante base ritmica che accompagna l’urlo munchiano. Le strade del paesello dormiente tremano. Il finale è un flash. Effetti alle pedaliere a volontà, feedback, fischi, accelerazioni alla batteria. Poi “Cara è la Fine”, oppressiva e commovente, e “Festa Mesta”, un po’ di sano punk che non guasta mai. Il pogo è ormai generalizzato, rumori e luci da star male, Cristiano che urla e poi stupra come si deve la sua fender prima sull’ampli, poi sui piatti percossi crudelmente da Luca.
Dal nulla sbuca fuori “Il Vortice”, il suggestivo monologo di recente produzione (dal sopra citato ep) con un finale in linea con l’esibizione. Se mi ritengo soddisfatto di un live di un’ora con dieci canzoni e senza Sonica e Nuotando ci sarà un motivo. Sono soddisfatto. Perchè? Che spettacolo. Per ora… E non è finita qui! Distrutto dalla pressione dei facinorosi che cercavano, mischiati furbamente nel pogo di Festa Mesta, di prenotare posti per gli Afterhours, sudato, senza voce ma ancora ammaliato, mi sposto un pò più indietro.
Manuel è in completo rosso, a lui il compito di chiudere per bene una serata che pochi dimenticheranno. E si parte tranquilli, questa volta, con la cover di un brano incantevole di Lou Reed, “The Bed”, poi si passa a “Veleno”, più esagitata del solito a smentire ogni cattivo pensiero. Quando Manuel lancia letteralmente la chitarra dietro al palco e si comincia, il pubblico prende fiato. Giorgio, il batterista, e gli altri se la ridono. A loro il duro compito di far restare il gruppo Afterhours e non “Manuel Agnelli Band”. Neanche questa sarà un’ora tranquilla. Quando parte “1.9.9.6.” nell’ormai nota versione elettrica c’è da divertirsi. Cantano tutti: i seguaci, i nostalgici, i turisti per caso, i più sbronzi stesi ai margini delle gradinate, la security che intuisce le parole al primo chorus e come se fosse in chiesa, le ripete, seppur con qualche imprecisione, alla seconda occasione. Esaltante. Manuel travolge tutti.
Poi il trittico “Sulle labbra”, “Rapace”, “Dea”, tre brani che sembrano fatti da tre gruppi diversi, con atmosfere peculiari ma accomunate, di fatto, dalla voce, in stato di grazia, di Agnelli. Che sulla seconda, dal vivo sempre di difficile interpretazione, è praticamente impeccabile. Nuovo momento di quiete con altre due cover, “La Canzone di Marinella” e soprattutto “Gioia e Rivoluzione” degli Area nella quale il teatrale protagonista si esibisce in uno dei virtuosismi tipici del compianto Stratos. Coraggioso. Poi la travolgente “Bungee Jumping” (nell’esplosione simil-noise è davvero difficile respirare) con “Varanasi Baby” a dare un’ulteriore prova della varietà dell’ultimo -anche se di due anni fa, pur sempre ultimo- album della band. Minacciose arrivano “La Verità che Ricordavo” e la furente “Male di Miele”. Infine il momento-accendini riservato alla splendida “Quello che non c’è” e la conclusiva “Bye, Bye Bombay” che mi è sembrata ben suonata. Dico “mi è sembrata” perchè ero indaffarato nel recuperare il cellulare perso nella folla durante gli inevitabili salti causati dalla “Smells Like Teen Spirit” italiana (che è “Male di Miele” ed è stata definita così da Manuel).
Manuel fino alla fine dà il meglio di sé. Woodstockiano, quando calandosi nei panni del vecchio Daltrey degli Who, sale sulla batteria, incita il pubblico, lo ringrazia, poi si diverte col jack del microfono. Lui lo fa roteare con violenza, Cristiano lo faceva scorrere lentamente sui tasti della chitarra. Piccoli particolari, come si dice. Ma è anche in questi piccoli particolari la diversità dei due protagonisti della serata. Essì, perchè i protagonisti sono loro. Loro e, ovviamente, gli altri componenti delle due band, senza dimenticare comunque i P.G.R. che qualcuno di noi, alla fine delle oltre tre ore di musica, ricorda meno solo perchè legati ad emozioni meno recenti rispetto a quelle offerte da Marlene Kuntz e Afterhours.
Due anime diverse dell’alternative rock italiano, la prima d’impatto più introspettivo e raffinato, la seconda d’impatto più immediato e spettacolare. Chi il presente, chi il futuro? Dopo un concerto del genere è impossibile riuscire a dare una risposta. Nessuno esce sconfitto. Noi, dal canto nostro, quasi senza parole, siamo molto soddisfatti. E anche loro lo saranno.