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Un ritorno, dopo un’assenza di sette anni. Ed è subito un tuffo al cuore. Le chitarre acide, vorticose, appena più dilatate rispetto ad allora, ma… il suono è quello, non ci sono dubbi. Torniamo al biennio storico del rock italiano, 1996-1997, quello che ha partorito i dischi migliori. Qualcuno gridava di “onorare il vile”, all’epoca; altri parlavano di unità di produzione, gelaterie sconsacrate, dadi che non segnano mai più di dieci, stagioni, videoginnastiche ed equilibri, mali di miele, schermi splendenti…
L’attacco di “Occhiali scuri al mattino” riapre le porte alla memoria, su alcuni dei dischi che ho amato di più: un vero tuffo al cuore.
Ma, razionalmente, significa anche che, dopo tutti questi anni di assenza, il suono del Santo Niente non è poi cambiato così tanto come si vuol far credere; chitarre appena meno violente, ma lo schema rimane quello: distorsioni vorticose aperte su piccoli spiragli melodici, assieme a testi volutamente criptici, costruiti in un illogico cut-up.
L’omaggio alla propria storia continua con “Il posto delle cose da non trovare”: Umberto Palazzo, unico rimasto della formazione originale e da sempre fulcro della band, allestisce uno spoken word che non può che rimandare, anche se con minor efficacia, ai Massimo Volume; nessun plagio, però, dato che a un disco come “Stanze” aveva contribuito in prima persona, andandosene subito dopo.
L’assalto a testa bassa, come nei momenti migliori, riprende con “Fuck you”, mentre “Mirrorshades” immerge il riff della title-track in un contesto più pop, in una strana atmosfera da western diretto da Tarantino; si torna palesemente al passato solo alla fine, con una vecchia conoscenza dei fan: “Pornostar”, in una febbrile versione dal vivo.
Una buona ripartenza da dove ci si era fermati, insomma. Toccherà all’album vero e proprio, in uscita ad ottobre, dirci se Umberto Palazzo abbia solo omaggiato il proprio passato o ci sia rimasto impantanato, senza riuscire a guardare oltre.