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Dicono che un’artista se ne accorga, quando realizza il proprio disco della vita. Non un disco che cambierà le sorti della musica, ma solo quello che si sente di avere nelle proprie corde e che non si era ancora riusciti a scrivere. Pietro De Cristofaro non è certo un esordiente, ma solo ora è riuscito a tradurre in suoni la musica che aveva in testa. “Songs for Ulan” è un suono denso e lento, a voce bassa, emozione palpabile ma non urlata, malinconia per qualcosa che è andato in pezzi.
I muri dello Zen Arcade di Catania erano ancora impregnati della musica dei Loma e di Cesare Basile, quando queste sette canzoni vengono registrate, e si sente. “Life was not yet” parte con un arpeggio morbido: sarebbe logico unirvi gli archi, e invece solo una chitarra distorta, piena, ricca di colore, arriva a sostenerla. Un feeling blues pervade tutto l’album, e si palesa già dalla stupenda “No stains”: solo una chitarra, le spazzole e una voce che cresce man mano. Dodici battute minimali, eppure piene di cose da dire e di emozioni: “il sangue che versiamo, credimi, non lascia tracce”.
“When we parted” rinuncia al tocco gentile per colpire duro, al cuore: la chitarra incede decisa, i colpi di batteria sono secchi e dolorosi come spari, rintocchi metallici interrompono la canzone, la voce è distorta; lo stacco con “All that she said was: No.” non potrebbe essere dei più netti, con quel passo lento, triste, da titoli di coda, la pioggia che cade, e che ti pare quasi di sentire sul vetro della tua finestra.
Di nuovo l’aria si accende con “Now I know…”: sembra quasi di sentire la lucida follia dei dEUS premere su queste note blues; le chitarre si incendiano, e la tristezza immobile di poco prima si incendia sotto il peso di chitarre impazzite. È solo un attimo, però: tutto torna calmo, “La vita reale è questa”, canta in “They’re crying for nothing”, e non potrebbe cantare niente di più triste. Dopo solo venti minuti, la rassegnata “It doesn’t really matter” chiude questo disco: troppo breve, ma di un’intensità capace di straziare il cuore, come già sapeva fare “Gran calavera elettrica” di Cesare Basile, di cui “Songs for Ulan” è il degno contraltare blues.