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Ho avuto sempre modo di lanciare peana, durante gli incontri recensori con le band prodotte dalla Wallace Records, verso il progetto musicale portato avanti negli anni da Mirko Spino. Grazie a lui tutte quelle band solitamente ghettizzate in termine di rapporto con il pubblico per via dello scomodo nome “avanguardia” hanno avuto modo di raggiungere una distribuzione nazionale, caso unico nel panorama produttivo italiano.
Il “suono” della Wallace ha oramai acquisito delle timbriche facilmente riconoscibili e questo grazie ad alfieri come gli A Short Apnea; il terzetto è formato da Paolo Cantù, Xabier Iriondo (insieme anche nei Tasaday e nei Six Minutes War Madness, Iriondo è stato per anni la storica chitarra degli Afterhours) e Fabio Magistrali, ovvero il vero e proprio artefice del suono delle “fabbriche Wallace”.
Nella loro ultima fatica in studio, la quinta in sei anni, si fanno accompagnare dal Gorge Trio (John Dieterich, Chad Popple, Ed Rodriguez) per poco meno di quaranta minuti di pura improvvisazione. Il tutto è nato durante tre giorni, chiusi in sala registrazione, a dar sfogo totale agli strumenti, chitarre, batteria, piano rhodes, organi. Poi, per tre anni, si è cercato di dare forma e sostanza a quella perdita di coscienza, ricucendo tagliando e aggiungendo (anche parti campionate), in una pratica di montaggio per nulla dissimile dal più puro editing cinematografico.
Il risultato è un suono ondivago, con strumenti che esplodono e implodono seguendo direzioni dissimili fra loro ma raggiungendo – a tratti miracolosamente .- un equilibrio confortante. Musica ostica, il cui ascolto a tratti potrà apparire insostenibile, ma alla quale va riconosciuto il merito della spontaneità e la capacità assai poco diffusa di saper dosare gli elementi eterogenei alla base della musica. Se da un lato è impossibile non sentire forte la matrice rock, soprattutto nell’uso delle chitarre, è altrettanto vero che elementi di avanguardia tout-court, di classica contemporanea e di free-jazz si fanno largo con sempre maggior consistenza.
Ciononostante il lavoro non regge per tutti e otto i brani, si notano delle lungaggini e in confronto a episodi del passato come “Illu Ogod Ellat Rhagedia (Ustrainhustri)” – l’album del 2000 resta tuttora l’apice del percorso di maturazione della band di Lecco – l’etica sembra affrontata con minor coerenza. Un lavoro comunque da ascoltare per tutti coloro che vogliono farsi un’idea del mondo sotterraneo che nasconde l’Italia e per gli amanti della libertà in ogni sua forma. Un viaggio ossessivo e urticante in un mare musicale sempre più prosciugato – come evidenzia ottimamente la grafica di Mirko Spino.