Share This Article
I tanto demonizzati anni ’80 nascondono, sotto una coperta intrisa di omologazione, qualunquismo e arte dell’eccesso una serie di perle spesso misconosciute alla grande massa, in particolar modo italiana. Se è vero che non si commette sacrilegio a identificare lo spettro sonoro della decade nel techno-pop nel quale furono maestri i Soft Cell di Marc Almond è altrettanto vero che nello stesso tempo c’era chi portava avanti progetti che si ponessero in antitesi alla ricerca di elaborate sovrastrutture musicali. Tra questi bisogna senza dubbio citare i Galaxie 500, terzetto formatosi a Boston nella seconda metà del decennio.
La loro proposta musicale può sembrare in apparenza il rallentamento progressivo delle sfuriate narcolettiche metropolitane tanto care ai Velvet Underground. In realtà alle spalle c’è qualcosa di ben più complesso: l’estenuante, estrema ricerca delle radici del suono. Ogni strumento è spogliato di qualsiasi orpello, le note sono ridotte al minimo, raramente ci si trova davanti a scarti sonori, la musica persegue una via lineare. In pratica l’ascoltatore accompagna ogni brano fino alla sua morte naturale. In tutto questo c’è spazio per vere e proprie gemme del rock, come la straordinaria “Blue Thunder”, ballatona della miglior specie nella quale il cantato aulico di Dean Wareham si fonde alla perfezione con le monocordi plettrate di chitarra e con il basso armonioso di Naomi Yang. In realtà il brano presenta alcune anomalie rispetto al resto dell’album, sia per il crescendo finale (e qui si fanno valere i tempi gestiti dalla batteria di Damon Krukowski) che per l’assolo di chitarra, elemento non indispensabile alle atmosfere tipiche della band.
“Tell Me” è la messa in pratica dell’intera etica del combo, fautore di una sorta di nuova psichedelia, ipnosi costante e ossessiva, sogno a occhi aperti guidato da una voce fatata e vagamente eterea. A volte il gioco minimale si fa addirittura più estremo, come nell’incedere drogato di “Snowstorm”, dove gli strumenti si incrociano, si fondono, giocano a inseguirsi senza mai rubarsi aria e modi d’espressione. La musica dei Galaxie 500 è un terreno pianeggiante sul quale adagiarsi e lasciarsi andare, come le lunghe statali che attraversano gli USA congiungendo mondi diversi, rappresentazione moderna e consumistica dell’infinito apparente. Ogni tanto gli spettri del rock si fanno più corposi, come nell’acidità depressiva di “Strange” e soprattutto in “When Will You Come Home”, dove i riferimenti ai già citati Velvet Underground si fanno più diretti, sia nella strofa che riecheggia le dolci ballate intonate da Nico sia nell’esplosione elettrica carica di sporcizie, assolutamente priva di controllo dei volumi.
In “Decomposing Trees” è un caldo sassofono a far deviare il brano dai soliti binari, mentre in “Another Day” possiamo ammirare la voce di Naomi Yang, addirittura più eterea e favolistica di quella del leader. Nell’incipit di “Leave the Planet”, dal ritmo leggermente più sostenuto, un’armonica spettrale si fa largo tra gli strumenti, ectoplasma di un mondo che non sembra possibile rievocare (e infatti l’armonica resta un semplice orpello, incapace di intaccare la struttura sonora). Il cantato di “Plastic Bird” abbandona i voli pindarici e si mette in gioco con maggior carnalità, mentre la musica trova un punto d’incontro tra le delicatezze acustiche e l’urgenza rock. L’album si chiude sulle note di una “Isn’t it a Pity” talmente stravolta rispetto all’originale di George Harrison da appartenere ormai di diritto a Wareham, dotato della capacità non comune di fare proprio materiale altrui.
I Galaxie 500 si sono sciolti nel 1990, proprio all’inizio di quel decennio che li avrebbe visti diventare punto d’ispirazione per decine di gruppi decisi a intraprendere la via della scarnificazione totale del suono, della desertificazione musicale.