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Dopo tre anni sono ritornate le magie dalla Norvegia. I due ragazzi di Bergen sembrano sempre gli stessi, il buffo Erland Oye con i suoi capelli rossi disordinati e quegli enormi occhiali ed Erik Glambek Boe con un’espressione di imperscrutabile saggezza stampata in faccia. A dispetto del tempo passato e delle escursioni elettroniche di Erland Oye, la musica che suonano non è cambiata granché.
Canzoni acustiche o quasi che si abbandonano con dolcezza alla malinconica, splendide melodie fuori dal tempo, che ricordano Nick Drake, Belle and Sebastian e certo anche Simon and Garfunkel, ma non in modo così evidente. Con il particolare che in qualche modo i Kings of Convenience con questi pochi strumenti riescono a trovare la loro voce, il loro tocco distintivo. Forse il segreto di tutto è quella leggerezza velata di una malinconia profonda che avvolge tutta la loro musica, qualcosa che si fa fatica a scacciare, forse è quel tocco di ironia che appare qui e là.
Fatto sta che “Riot On an Empty Street” è un disco riuscito almeno quanto lo era “Quiet is the New Loud”. Lo si era intuito già soltanto ascoltando il primo singolo “Misread”, un gioiello per chitarre acustiche spezzato da uno splendido intervento di pianoforte, in cui i due Kings of Convenience cantano dell’amicizia. La scrittura nitida dei due è sempre inconfondibile sin dall’inizio, quando intonano “Homesick” e raccontano del ragazzo che si perde dietro a due voci soffici dimenticando il proprio lavoro. Ancora una volta usano soltanto chitarre acustiche e un violoncello ad accompagnarli, come in “Cayman Islands”, per tre minuti di autentico splendore.
La leggerezza con cui costruiscono i brani li avvicina alla Bossa Nova, davvero dietro l’angolo in “Know-How”, che si illumina inaspettatamente nel finale grazie alla voce di Feist. A metà del disco i due rincorrono territori più pop senza perdere la propria grazia ed allora arrivano “I’d Rather Dance With You” con il suo irresistibile ritornello e “Love Is No Big Truth”. Ma il disco nel finale torna su toni più intimi, solo chitarre, piano e le loro voci. In qualche caso compare un trombone per arricchire gli arrangiamenti, “Live Long” e “Gold in the Air of Summer”, in qualche altro i due riducono i suoni all’essenziale, “Surprise Ice”. Si muovono con leggerezza cucendo uno dietro l’altro brani intrisi di malinconia, fino ad arrivare a “The Build-Up”, ballata incantevole che sfocia in una deliziosa coda in cui due voci, quelle di Erik Glambek Boe e di Feist, si mischiano alla perfezione. E, proprio come accade al ragazzo di cui cantano all’inizio del disco, ci si perde in quella melodia.