Share This Article
Mettiamola così: se questo lavoro omonimo, il quattordicesimo in studio (considerando “Three Imaginary Boys” e “Boys Don’t Cry” anime separate), fosse uscito come singolo e avesse contenuto solo i primi due brani staremmo parlando di un piccolo capolavoro. Purtroppo ci troviamo di fronte a un album sulla lunga distanza, e questo finisce per influire negativamente sul giudizio finale.
“The Cure” si apre infatti con “Lost”, probabilmente il miglior brano della band da dieci e passa anni a questa parte, caratterizzato da un incedere angoscioso, ossessivo e descritto dalla voce a metà tra il lamentoso e il rabbioso di Robert Smith. Veramente una composizione di altissimo spessore, carica di pathos e arrangiata splendidamente. L’ipotesi di un ritorno glorioso sulle scene sembra rafforzata dall’ascolto di “Labyrinth”, che rievoca le atmosfere cui i Cure avevano abituato il loro uditorio sul finire degli anni ’80. Sembra di trovarsi di fronte all’urlo disperato, finale, di un’anima dark che negli ultimi anni si era ritrovata racchiusa – volontariamente? – in un corpo troppo esplicitamente pop. Il moto di rivoluzione sembra portare effetti più che benefici…sembra.
Dal terzo brano in poi, infatti, l’album vive una stato di totale black-out. Tra ballatone banali che cercano salvezza in una stratificazione di suoni del tutto arbitraria (“Before Three” ma soprattutto “Alt. End”) e svisate che cercano pateticamente di coniugare dark e nu-metal come “Us or Them”, in omaggio alla produzione affidata a Ross Robinson, non c’è veramente nulla che possa apparire anche solo vagamente interessante. E chi spera di fare affidamento sul gusto per la melodia innato in Smith, aggrappandosi al solito singolo pop da classifica stavolta resterà terribilmente deluso. “The End of the World” è, e mi duole dirlo, di una bruttezza lancinante, canzone priva di qualsiasi fascino, di una pochezza musicale da lasciare basiti e nella quale il cantato di Smith risulta addirittura snervante e fastidioso.
Per non parlare dell’apocalisse di onnipotenza che risucchia Smith nel finale affidato all’estenuante “The Promise”, che potrebbe anche risultare accettabile se non peccasse di un’elefantiasi strutturale ai limiti del delirio mentale. A parte i due capolavori di apertura mi sento di spezzare una lancia in favore di “Anniversary” e “(I Dont’ Know What’s Going) On” che altrove sarebbero stati cassati come i peggiori brani del lotto ma qui si ritrovano, ahimé, a rifulgere in mezzo a una notte che più nera non si potrebbe. Viene voglia di piangere a pensare che sto stroncando un album dei Cure, ma sarebbe impossibile il contrario vista la pochezza dell’insieme. Ora le speranze sono affidate all’ispirazione mostrata nell’incipit maiuscolo di questo lavoro – che si candida fortemente ad album peggiore del 2004 -.
Qualora la strada seguita da Smith non fosse quella, allora sarebbe il caso di far sparire il nome dei Cure dalla scena musicale contemporanea come più volte ipotizzato dallo stesso leader. Piuttosto che veder infangare la memoria di una band storica…