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La filosofia delle creature ferrettiane che nel corso degli anni si sono succedute (dai CCCP ai CSI ai PGR passando per episodi solisti quali “Codex” o scritture per altri quali le collaborazioni con gli Ustmamò) è oramai quella di adattarsi al soffio del mondo. L’ardore filosovietico si è trasformato in progressismo, in terzomondismo e infine, oggi, in parziale negazione del proprio passato: considerandosi “orfano di sinistra” (ma non disponibile a farsi adottare, per fortuna, da altre forze e pensieri) Giovanni Lindo Ferretti chiude un mondo nella speranza di poterne aprire un altro.
Nei PGR attuali non c’è spazio per le vellutate atmosfere pianistiche disegnate da Francesco Magnelli né per il gorgheggiare aulico di Ginevra Di Marco – elemento effettivamente risultato con il passare degli anni sempre più inutile e ingombrante, orpello tutt’altro che necessario -. Sono rimasti a far compagnia al cantante solo la chitarra di Giorgio Canali e il basso di Gianni Maroccolo (oltre alla figura di Pino Gulli, mai membro delle bands eppure da sempre orbitante intorno ai manifesti programmatici di Ferretti). La disgregazione del Consorzio è dunque oramai totale: Zamboni e la coppia Di Marco/Magnelli si sono dati alle opere soliste, e anche i fedeli Maroccolo e Canali si sono cimentati con materiale proprio (Canali continuando per la sua strada fatta di rockettone possente, coinvolgente ma ingenuamente banale e Maroccolo partorendo uno dei più brutti album del 2004).
Eppure proprio ora che tutto sembra crollare i Per Grazia Ricevuta licenziano il miglior lavoro della loro breve vita: la lingua di Ferretti è alla ricerca di vie più abbordabili, inneggia al ballo collettivo, si dedica a pensieri faceti. “Dire fare baciare lettera testamento” cita in “Alla Pietra”, il brano che dà il via all’album, nel quale si cerca sia di riprendere il passato dei CSI in una citazione di “Fuochi nella notte di San Giovanni” sia di far incrociare il mondo del rock con il canto popolare. In questo sembra riacquistare forza l’esperienza CCCP, soprattutto quella che fa riferimento al periodo di “Epica Etica Etnica Pathos”: in “Casi difficili” la tamorra viene accompagnata da chitarre distorte, bassi sinuosi e una batteria schiacciante.
Dispiace notare come la lingua di Ferretti stia inesorabilmente continuando a rigirarsi su se stessa, in un processo di reiterazione che da un lato appare pur ovvio (come si può pretendere originalità e vigore letterario dopo vent’anni e passa di attività?) ma dall’altro preoccupa, anche al di là della già annunciata crisi di rigetto politica del leader. Eppure musicalmente l’album è tutt’altro che da buttar via: lasciate da parte le parentesi misticheggianti, che sembravano un incrocio tra new age politicizzata ed elettronica, la band affida la propria indole agli strumenti classici, alla ricerca di un possibile ritorno alla semplicità e all’essenzialità di un tempo. Grande spazio trovano gli archi, e per la prima volta a distanza di anni si può quasi immaginare un riflesso punk nella musica dei tre resistenti: insomma, c’è, tra le righe, di che stupirsi e compiacersi.
Non tutto logicamente suona interessante, non tutto suona fluido, non tutto suona indispensabile. Ma in fin dei conti non importa: ciò che conta è sapere che si può ancora fare affidamento su coloro che furono fedeli alla linea per poi tramutarsi in consorzio e alla fine trovarsi a invocare una grazia ricevuta. E’ impossibile al momento immaginare un’Italia rock senza la voce salmodiante di Ferretti. E se quello che oramai è in grado di regalarci è solo la sufficienza, bé, allora noi ci accontentiamo della sufficienza. Per adesso…