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Sono passati alcuni anni da quando ci occupammo di “Bisanzio”, primo frutto del progetto Mandara. Ora, finalmente, con un po’ di ritardo, ecco “Alatul” (in arabo: “dritti fino alla fine”): e l’attesa non è stata vana. La band italiana ha ormai assunto i caratteri di un vero e proprio collettivo, nel quale numerosi musicisti offrono il loro contributo sotto la sapiente guida di Gennaro De Rosa. Sempre più padrone anche del versante elettronico di Mandara, il percussionista è autore di quasi tutte le musiche originali del disco.
Rispetto al primo album, nel quale i singoli brani, pur nella complessiva coerenza artistica, facevano ognuno storia a sé – singoli, misurati, quadri autonomi, indipendenti l’uno dall’altro – qui la prima impressione è quella di una vera e propria esplosione culturale, un Big Bang che da un unico nucleo di materia musicale generi dieci compiute espressioni artistiche: variazioni di un’unica ispirazione. E questo nonostante “Alatul” sia il frutto di una lunga gestazione, di illuminazioni di viaggio (in Marocco e a Baghdad), di collaborazioni diverse (Peppe Voltarelli e Mimmo Mellace del Parto delle Nuvole Pesanti, Arnaldo Vacca, Gigi Borgogno degli Osanna), di brani recuperati (“S.O.S. 106” risale all’epoca di “Bisanzio”). Sembra quasi che a Mandara non occorra più cercare suoni e colori del mondo, ma che questi gli vengano spontaneamente incontro. Segno incontestabile della raggiunta maturità.
Apre la breve title track, con funzione di introduzione: un sonoro vocalizzo accompagnato da percussioni, una one-man performance di Arnaldo Vacca che ci trasporta subito in pieno mondo arabo. Ben piazzata, immediatamente a seguire senza stacco, “Kurdistan”, interpretazione dell’omonimo brano degli Embryo, esponenti di punta, insieme ai Can, del cosiddetto Krautrock tedesco: modelli ai quali Mandara si è ispirato nell’elaborazione del proprio stile etno-elettronico. Il suono familiare dei flauti, del violino e del bouzouky è accompagnato dal sinth, con riuscito effetto straniante. Nel perfetto bilanciamento di fredda elettronica e calde sonorità acustiche consiste proprio la peculiarità di Mandara. Uno stile che sa alternare momenti lirici e riflessivi a raffinati episodi strumentali ad alto tasso tecnico ed emozionale. Esemplare a questo proposito “Über der Tanz” (vale a dire, con un omaggio linguistico ai maestri del rock tedesco, “riguardo alla danza”), frutto di una jam session in compagnia della batteria di Mimmo Mellace: brano perentorio, violento, nel quale, su un tappeto elettronico, spiccano il riff di violino di Piero Gallina e la chitarra quasi hard di Borgogno.
In “Marrakech FM” (con testo in francese) De Rosa parte da una melodia originale maghrebina, eseguita pari pari da un quartetto d’archi (con effetto campionamento dal vivo!), per poi creare una sorta di variazione sul tema, alla riscoperta delle proprie sensazioni di viaggio. Se “Canta sola” si configura come una affettuosa e polemica danza antibellica, “Spoon” è la seconda cover (chiamiamola così…) dell’album: àuspici, questa volta, i Can. “S.O.S. 106” è, come scrive De Rosa, «un ultimo scampolo di provincialismo»; e infatti riporta a certe atmosfere del primo disco: sia per quanto riguarda l’ambientazione calabrese (chiunque conosca un po’ la Calabria avrà certamente fatto la conoscenza della famigerata statale 106, serpentone della costa ionica ad alto numero di incidenti…), sia per la musica (è l’unico brano in cui De Rosa suoni la batteria) e lo stile del canto “rappato” di Castriota Skanderbeg. Le ultime tre tracce sono “Mandara Jingshen” (“spirito Mandara”: aria di estremo Oriente abilmente “distorta” anche grazie ai sax di Raul Colosimo), “Kalpa” (il pezzo più disteso, da meditazione, con raffinatissimi intrecci strumentali), “Tersicorea” (un tango gitano forse non originalissimo nell’idea di base ma ben svolto e appropriato come chiusura del disco).
Dall’Africa alla Cina, passando per i Balcani: “Alatul” (con la collaborazione al mixaggio di Marco Messina dei 99 Posse) è un piccolo, ma efficiente, catalizzatore di suoni del mondo.