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Riuscire a scegliere, nella straordinaria discografia degli Who, l’album più significativo o quantomeno quello in cui si può identificare il volto della band è faccenda tutt’altro che semplice. C’è ovviamente lo storico esordio “The Who Sings My Generation” nel quale l’irruenza mod esplode come un germe distruttore, c’è l’epica operistica di “Tommy”, la perfezione live del concerto all’università di Leeds, c’è “Who’s Next” contenitore di straordinarie canzoni e c’è la sobria epopea di “Quadrophenia”.
Eppure, a ben vedere, l’album in grado di rappresentare in maniera diretta il rapporto degli Who col proprio tempo e la loro carica eversiva è “The Who Sell Out”, solitamente lasciato nelle seconde linee dalla critica. Strutturato in modo tale da intramezzare i brani a veri e propri caroselli pubblicitari, “The Who Sell Out” anticipa in qualche modo l’interpretazione postmoderna dell’arte, grazie a una rilettura dei propri codici – e vedremo fino a quale punto riuscirà a spingersi la ricerca ossessiva della purezza pop – che diventa ricerca estrema del rapporto che intercorre tra arte e mercato. Pete Townshend e il resto della combriccola sono perfettamente consci del loro ruolo cruciale.
In un’epoca storica in cui il rock è ancora ammantato di un’improbabile valore sociale prima che artistico (fino al paradosso di vedere nei Beatles il lato più duro della protesta sociale, quando proprio i baronetti avevano investito tempo e denaro nella costruzione di un’icona borghese e rassicurante), gli Who puntano i piedi in terra e cercano di far aprire gli occhi sull’utilizzo commerciale della musica. Sono ancora lontani i tempi dei Residents e del loro splendido “Commercial Album”, ma l’idea di base che muove il quartetto inglese parte dagli stessi presupposti. Che sono poi, a ben vedere, gli stessi che un certo Frank Zappa sta portando avanti oltreoceano, allargando il discorso non solo al rapporto arte=commercio, ma anche al senso di un’arte che viva per se stessa e di se stessa. E anche in “The Who Sell Out”, così come in “Freak Out!” (e divertente appare il gioco di parole casuale), l’arma usata è quella dell’ironia. Basta ascoltare l’incipit dell’album nel quale i semplici nomi dei giorni della settimana vengono pronunciati da una voce filtrata e ambiguamente androide, prima che il tutto esploda nella perfezione pop di “Armenia City in the Sky”, dove la deformità e il grottesco la fanno da padroni determinando una riscrittura dei dettami del genere che esula però da una sua negazione o, come faranno altri in maniera scaltra ma non altrettanto efficace, da una sua parodia.
Elencare i capolavori di un lavoro così compatto e così unico è operazione difficile e forse fondamentalmente ingiusta: mentre elevare un brano come “Baba O’Reilly” al di sopra di “Who’s Next” appare non solo operazione ovvia ma anche doverosa, portare avanti un discorso simile per decifrare l’immenso splendore di “The Who Sell Out” rasenta la follia. Questo miracoloso lavoro del 1967 regge la sua intera essenza sul puzzle sonoro nel quale vanno a incastonarsi i brani, in un gioco a incastro stratificato fino alle estreme conseguenze. Soprattutto considerando come gli Who lavorino qui su un doppio binario: se da un lato, come abbiamo già detto, si tratta di allineare in una sorta di immaginario palinsesto televisivo o radiofonico il lato commerciale a quello artistico, dall’altro si sente la necessità di creare un ponte musicale che leghi l’esperienza passata (dalle digressioni bandistiche come “Heinz Baked Beans” alle esplosioni psichedeliche come “I Can See for Miles” fino al pop beffardo di “Mary Anne with the Shaky Hand”) con un discorso di struttura narrativa che la band affronterà in maniera decisa con “Tommy” e “Quadrophenia”. Qui la linearità che sarà uno dei punti di forza degli album in questione viene meno, lasciando spazio a un insieme schizoide e anarchico che ben identifica l’ipotesi di zapping, in un patchwork sonoro di straordinario potere evocativo.
Sì, forse ora che si ha la possibilità di ragionare a posteriori su quell’epoca musicale si può finalmente rendere merito all’eccezionale acume intellettuale di Townshend, Entwistle, Moon e Daltrey. Capaci di mescolare in un solo album rock, pop, sociologia e humor inglese della miglior specie. In piedi, doverosamente, a inchinarsi.
P.s.: come al solito le ristampe hanno prodotto un numero smisurato di bonus track, alcune essenziali altre meno. Mi sembra giusto segnalare un’ottima interpretazione della classica “Hall of the Mountain King” (in italiano “Nell’antro del re delle montagne”), tratta dal capolavoro di Grieg “Peer Gynt”.