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La domanda è costretta oramai a sorgere spontanea: che Roma si stia gradualmente trasformando in una città amante del rock? E non parlo del rock “canticchia e muovi il culo”, ma di qualcosa di ben più indefinito, magmatico, ottundente. L’8 Ottobre del 2004 una folla oceanica ha invaso, entusiasta, il concerto di Devendra Banhart e delle Cocorosie (vedi recensione). Appena un giorno dopo un’ennesima carovana di anime si è fatta largo all’Acquario Romano per assistere all’annuale Zu Fest.
Il festival, giunto alla terza edizione, non nasconde certo il nome dei suoi organizzatori: padrini della serata sono infatti ovviamente gli Zu, band capitolina di post-rock (ma anche post-jazz, ma anche post-noise, dunque forse essenzialmente post…e basta) molto apprezzata all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Il programma della giornata era quanto mai curioso e appetitoso: ad aprire la serata c’erano Jeffrey Alexander e Miriam Goldberg, ovvero i Black Forest/Black Sea di ritorno a Roma dopo lo splendido concerto di Marzo alla Locanda Atlantide (vedi la recensione), a seguire Mats Gustafsson, geniaccio dell’arte del sassofono amico intimo dei Sonic Youth (è da poco uscito un album accreditato a M. Gustafsson, Sonic Youth & Friends) e idolatrato da Jim O’Rourke.
Quindi, dopo l’esibizione dei padroni di casa Zu, ecco i Lightning Bolt, duo statunitense che si è fatto un nome aprendo l’ultima tournée statunitense di Kim Gordon e il resto della gioventù sonica. Insomma non certo un piatto apprezzabile da ogni palato, eppure la sala si riempie con una facilità sconcertante, e il pubblico si assiepa pazientemente sul pavimento in attesa della performance dei Black Forest/Black Sea. Sarò di parte ma un concerto di questa coppia non potrà mai deludere: Jeffrey come al solito impegnato a stuprare la sua mandola con riverberi, distorsioni, feedback, cacofonie, Miriam a tenere il tempo al violoncello ma pronta a gettarsi in infiniti giri di rumorismi. Rispetto allo scorso incontro romano il suono sembra essere più instabile, la componente eterea è facilmente schiacciata da un’urgenza carnale, vitale e furiosa estremamente palpabile. La voce di Miriam fa capolino solo una volta e per pochissimi istanti, fragile e sovrastata dall’insieme sonoro. La quiete (anche apparente) non è prevista, stasera si delinea un mare increspato e una foresta stuprata da un improvviso temporale. Un’interpretazione umorale straordinaria, per quanto fin troppo breve – ma sarà prassi stasera -.
Visto che di Christina Carter, accreditata sul palco insieme al duo non c’è ombra tocca a Gustafsson irrompere sulla scena con un boato, mentre ancora si stanno dissolvendo le ultime note dei Black Forest/Black Sea. Da solo il sassofonista ci regala solo tre/quattro minuti, ma quanto splendore e grandezza racchiusi in così pochi istanti! Gustafsson mostra un controllo assoluto dello strumento, ci gioca, sembra liberarlo per poi smentirsi immediatamente e castrarlo in una serie di esplosioni e implosioni continue.
Un gioco al massacro che finisce per diventare il punto di partenza del concerto degli Zu, al quale Gustafsson partecipa come guest star. Jacopo Battaglia e la sua band sono indubbiamente bravi, eppure neanche in questa occasione riescono a scrollarmi di dosso l’idea che mi sono fatto di loro: tutta la loro deflagrazione musicale – acuita dal raddoppio del sassofono, ovviamente -, tesa a una barbarica devastazione della struttura sonora che non degeneri comunque in mero rumorismo mi sembra fin troppo calcolata. Gli Zu sono dei cesellatori, dei degni matematici impegnati nell’arte del calcolo, ma assolutamente incapaci a volare via, oppure semplicemente a lasciarsi andare alle pure sensazioni. Una musica geometrica, sicuramente apprezzabile da un punto di vista architettonico ma estremamente fredda e statica. Comunque dubito che queste mie riflessioni possano turbare il sonno del terzetto, vista la truppa di fans sfegatati che li segue in giro per la capitale – e anche più in là -.
La conclusione della serata è stato anche il momento più alto e al contempo inaspettato: i Lightning Bolt sono due ragazzoni americani, basso/batteria. Tipiche facce da liceali, Gibson e Chippendale (questi i nickname che usano) presentano una sorta di hardcore estremizzato e profondamente tribale. Chippendale martoria in continuazione la sua batteria minimale con un’intensità e una furia sbalorditive, inseguendo ectoplasmi anni ’80 mentre Gibson è impegnato in scale sul basso. Un’esperienza viscerale, in cui il naturale senso di stordimento – raramente mi era capitato di incappare in un uso così logico e al contempo totale del pestaggio degli strumenti – è acuito dalla voce ultra filtrata del batterista, che urla frasi francamente incomprensibili (ho percepito solo un chiaro e perentorio “Fuck George Bush!!!!”).
La folla è letteralmente andata in delirio e quando prima dell’ultimo pezzo, dopo aver distrutto almeno quattro bacchette, Chippendale ha spostato la batteria per permettere alla gente di pogargli intorno, l’atmosfera tribale ha acquistato un senso addirittura ulteriore. Un’esperienza collettiva, destinata a colpire contemporaneamente pancia e cervello (ecco in cosa hanno fallito gli Zu!) con un attacco terrorista all’apparato uditivo di rara efficacia e convinzione. Thurston Moore ha detto di loro “sul palco sono per il 2000 quello che eravamo noi per gli anni ‘80”. Io sono perfettamente d’accordo. E sarei curioso di sapere cosa ha pensato tutta quella folla che stasera ha deciso di dire no alla partita della nazionale, alla solita pizzeria, alla solita discoteca, al solito pub, per ficcarsi in un salone della Roma storica ad ascoltare il rock che non ti passano per radio e di cui non impari a memoria il ritornello. Forse, e spero di non essere troppo ottimista, qualcosa sta cambiando…