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Che il Kraut-Rock, sigla usata per identificare il rock di matrice teutonica venuto alla luce tra gli ultimi singulti degli anni ’60 e i primi vagiti del decennio successivo, risulti essere a un trentennio di distanza una delle avventure musicali più seminali è oramai punto fermo acquisito e metabolizzato da buona parte della critica – anche se in Italia si continua a vivere in uno stato di (semi)incoscienza dettato da un’apatia distributiva ancora fortemente riscontrabile -.
Risulta dunque doverosamente scontato arrivare a fare i conti con un album come “Phallus Dei” partorito dagli Amon Düül II nel 1969. L’appendice numerica alla fine della titolazione del combo di Monaco di Baviera è dovuta alla precedente storia della band: in principio vi era un ensemble musicale abnorme, vera e propria comune (e dopotutto l’epoca è quella, fra hippies e persone dedite all’autocoscienza in fuga da un mondo ipertecnocratico, paranoico e stressato – ma la società occidentale non è forse sempre stata così?) denominata semplicemente Amon Düül. Quando questa esperienza decise di scindersi vennero alla luce gli Amon Düül versione I e II; di questi i primi ebbero storia fugace e ben poco interessante, al contrario dei II che diedero alla luce come primogenito questo eccezionale “Phallus Dei”.
Opera nella quale confluiscono tutti i rimandi culturali della band, dai clangori, tintinnii e boati che aprono la title-track prima che questa venga vivisezionata e innervata dal basso di Dave Anderson e che riportano direttamente al fluire psichedelico dei Pink Floyd fino alle cavalcate ossessionanti e ossessionate degne della mente narcolettica di John Cale e Lou Reed – e i Velvet Underground prima maniera saranno oggetto d’idolatria per tutta la scena tedesca, dai Can ai Faust -. Ma si incapperebbe in un gravissimo errore d’interpretazione limitare il campo d’azione degli Amon Düül alle sole coordinate rock: certo, è impossibile non riscontrare nella loro musica germi psichedelici, malattie pre-wave e addirittura fraseggi vagamente progressive, ma la forza della band sta nella ricerca forzata di un patchwork musicale in grado di far convivere elementi fortemente antropologici.
Così si può assistere a un’interpretazione angosciosa delle trame musicali arabe nell’incedere ipnotico della splendida “Kanaan”, destinata a perdersi in accelerazioni, un parlato sommesso e vocalizzi in lontananza. Il brano è posto simbolicamente ad apertura dell’album ed è facile leggerlo come manifesto programmatico del mood della band. Ma non è certo tutto qui: tra accenni di percussioni africane, canti gregoriani e intermezzi provenienti direttamente dal Giappone il suono degli Amon Düül si fa decisamente meticcio, aperto a ogni influenza. E capace di mostrare una parentela stretta anche con le schizofrenie avant-pop di Frank Zappa che stavano invadendo da poco meno di un lustro l’industria statunitense. Ma questo senso di non aderenza stretta a luoghi o geografie prestabilite è facilmente codificabile e riscontrabile in buona parte del krautrock, soprattutto nell’omonimo dei Faust e nei seguenti “Faust Tapes”, oltre che nei Can e nei Popol Vuh – che qui prestano Holger Trülzsch alla causa, impegnato alla Turksih Drum -.
Il fallo di Dio ha finito per ingravidare (consapevolmente?) buona parte della musica contemporanea che vale la pena di ascoltare. E non accusa ancora sulle sue spalle il peso degli anni.
Buon per lui. E per noi.