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Primo contatto con l’esterno del prodotto: manifestazione di piazza. Folla oceanica a perdita d’occhio. Ipotesi etica. Interno dell’involucro: Foto di casermoni popolari della periferia milanese all’epoca che fu. Ipotesi logistica. Primo contatto con il prodotto in quanto tale: Accenni di musica, sprazzi di suoni, frammentazione. Spari seguiti dal silenzio. “Torna allos Estados Unidos! Non comprarti pane pane con este dinero, hombre, compra dinamite!!!!”. L’ipotesi etica e quella musicale si sposano, il prodotto acquista in logica strutturale.
Prima di essere il terzo lavoro dei Bron Y Aur, quartetto milanese la cui musica può essere ricondotta a un incontro tra improvvisazione, kraut rock ed elementi di rock “classico” (se questo termine ha possibilità di esulare da un utilizzo improprio), “Quien sabe?” è un film del 1966 di Damiano Damiani, solo apparentemente ennesimo figlio dell’epoca d’oro dello spaghetti western. In realtà l’opera di Damiani è un fulgido esempio di incrocio tra intenti: da un lato quello di rileggere il mito del western classico sposandolo a episodi picareschi e decisamente goliardici, dall’altro quello di inserire all’interno di un discorso di genere (e dunque di utilizzo di codici fissi) una riflessione sulla politica imperialista statunitense. Questo prima che esplodesse in Italia il ’68 e bla bla bla…e proprio in quest’ultima istanza riflessiva, in questa decisione di ergersi come ibrido, convergenza di stili e idee anche alte in una rilettura non esente da attrazioni popolari e “goliardiche” l’album dei Bron Y Aur sembra aver bene interpretato lo spunto di partenza.
L’interpretazione prettamente improvvisata – e con pochissimi ritocchi a posteriori – che aveva evidenziato positivamente anche il precedente “Between 13 & 16” assume qui una connotazione ancora più estrema proprio se messo in relazione a una materia compiuta e impossibilitata a evolversi come la pellicola cinematografica. Il rock qui sembra esaurirsi in alcune evocazioni psichedeliche, flussi di suoni come quello che accompagna l’ossessione angosciante di “Part 1”, ma in sostanza si tratta di veri e propri ectoplasmi destinati ad abitare gli incubi e la memoria. Il presente è ben altro, incentrato su uno studio certosino delle possibilità percussive: anche qui eludendo la “facile” trappola del rock, visto che la batteria risulta essere quasi assente, almeno nella sua accezione classica. Trovano invece grande spazio i rintocchi chitarristici, il vibrafono, i loop. E trova finalmente compimento anche l’attitudine free jazz che da sempre accompagna la sperimentazione sonora della band: ma più che nell’umorale incastro sonoro di “White Rabbit” questo si esplicita nella libertà ritmata e incessante di “Better Blues”.
La voce, elemento estraneo al DNA della band, si ritaglia uno spazio in “The Poetry Reading”, nel quale la voce di Charles Bukowski accetta di barattare la propria arte con del buon whisky e comprende di non essere diverso da chi fa lavori umili e dai criminali da strada. Di nuovo l’etica si fa largo nei solchi del vinile – sto ascoltando un cd, ma permettetemi una licenza poetica -. La cosa sorprendente di questo lavoro è come gli elementi si sposino e si amalgamino alla perfezione, dimostrazione di una comunione d’intenti figlia sicuramente di un decennio di attività ma anche di una vitalità artistica tutt’altro che sopita. E se un brano come “Rosto Gramash” non può suonare altro che come un manifesto programmatico viene naturale da chiedersi fino a cosa si sta spingendo il progetto dei Bron Y Aur. Ora che appare palese come non abbia più senso parlare di post-rock – altra matrice culturale dei quattro – e come tutto si stia facendo più meticcio, meno definito. La natura musicale della band rende impossibile delemitarne i confini o anticiparne le mosse. E forse è davvero meglio così…dopotutto, come diceva quel vecchio film western che western non era? “Quien sabe”…