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Dieci stratagemmi per sopravvivere. L’ultima fatica discografica di Franco Battiato, che trae ispirazione da un’opera cinese di strategia militare, delinea un’ideale percorso di resistenza contro i guasti della contemporaneità.
Consigli di un saggio oppure training autoterapico? Altruismo o egocentrismo? Aspirante saggio socratico con un pizzico di misticismo ed esoterismo in più, Battiato non ha ovviamente raggiunto – né mai raggiungerà – l’ideale superiorità sulle miserie terrene. Ad ogni nuova prova artistica ripropone il suo assalto alla tranquillità dell’animo, uscendone – per fortuna nostra – sempre regolarmente sconfitto. Ben lungi, dunque, dall’essere un decalogo ad uso degli adepti, anche “Dieci stratagemmi” è, prima di tutto, un promemoria personale e, anche, una sorta di riassunto, di epitome, di tutte le battaglie (anche stilistiche) affrontate in carriera.
Il punto numero uno riguarda il rapporto amoroso: in “Tra sesso e castità”, scandita da un morbido accenno di deguello messicano (che guarda caso nasce come musica di guerra…), “l’animale” irrequieto si guarda indietro pensieroso e possibilista. Ma già incalzano le propensioni verso la saggezza orientale, alla ricerca dell’elevamento spirituale: “Le aquile non volano a stormi” traduce nel testo una poesia cinese di Ch’u Yuan (e ritornano le aquile solitarie contro il pericolo della massificazione…), e di sapore prettamente centroasiatico è anche la musica.
Recitativo disarticolato, passione civile e sarcasmo morale fanno la loro apparizione in “Ermeneutica”, un dardo scagliato contro l’ipocrisia imperialistica americana e il servilismo di certi alleati (la conta non è difficile…), da confrontare con le contemporanee invettive dei colleghi Green Day e Beastie Boys. “Fortezza Bastiani”, al contrario, è un ritorno al classico sia dal punto di vista musicale che da quello testuale, un piacevole riemergere del Battiato pop degli anni ottanta-primi novanta: ariose folate d’orchestra, tocchi calibrati ma incisivi di sint, la fantastica fortezza di Dino Buzzati a simboleggiare l’orgoglioso ma dannoso antagonismo individualista (l’invincibile “ossessione dell’io”); il tutto accompagnato da chitarre ritmiche.
Sorprendente “Odore di polvere da sparo”, brano centrale, quello più linearmente rock. Se lo avessimo ascoltato in un disco di Max Gazzè non ci saremmo stupiti più di tanto. Assolutamente affine lo stile del canto, tanto da sembrare un omaggio del maestro all’allievo… solo suggestioni? Non è certamente suggestione la parole “fine” che il cantautore siciliano pone alle vergognose speculazioni sulle sue presunte simpatie politiche per l’una parte o per l’altra. “I’m That”, pressoché interamente in inglese e in compagnia di Cristina Scabbia dei Lacuna Coil, recita (in traduzione): “non sono per il martello, né per la falce, né tantomeno per la fiamma tricolore, perché sono un musicista”. Allo stesso modo Battiato si dichiara aconfessionale. Purtroppo ci sono ancora troppi artisti, ormai scomparsi, che non sono più in grado – a differenza di Battiato – di chiudere personalmente la partita con l’ignoranza di parte del loro pubblico.
Alle voci camuffate e alle programmazioni di “I’m That” segue il terso spiritualismo di “Conforto alla vita”, pezzo che invita all’ottimismo e ad essere “forte e sereno anche nei giorni dell’avverso fato”. Di nuovo carica di elettronica è invece “23 coppie di cromosomi”, in gran parte strumentale, con la quale Battiato recupera la mai sopita passione per il mondo scientifico dei numeri e delle combinazioni, in un sogno di metamorfosi cronenberghiano. Se mai vi foste meravigliati nell’ascoltare questo brano (ma quanto è coerente col suo autore la melodia arabeggiante della seconda parte!), tanto più vi lascerà sulle prime interdetti lo spigliato tedesco di “Apparenza e realtà”: sarà sufficiente ricordare che al catanese non sono del tutto nuovi gli accenti dance, a prescindere dalla collaborazione offerta in questa occasione dai Krisma, Maurizio Arcieri e Christina Moser.
Chiude la partita della vita, al termine del ciclo biologico, lo stratagemma estremo, quello necessario per affrontare la morte: e non è altro che la pace interiore e la serenità del filosofo senecano. Al termine di un percorso contrastato, fra elevazione spirituale e passioni terrene, l’autore sembra raggiungere – ma sarà sicuramente solo per un attimo! – l’essenza della vera saggezza. Il sommesso canto alternato con Manlio Sgalambro introduce, attraverso “La porta dello spavento supremo”, ad un tenero sogno che profuma inconfondibilmente di Sicilia e di Magna Grecia, accompagnato da un pianoforte geometrico e lineare come nei “Preludi e fughe” di Shostakovich.