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Come si può prendere in esame il nuovo album di Graham Coxon se non in parallelo con “Think Tank” degli ormai ex compagni Blur? Impossibile. Sarebbe come analizzare le prove soliste di Roger Waters senza sbirciare l’evoluzione che hanno avuto i Pink Floyd dopo la dipartita del loro bassista. Del resto qui si parla della storia universale degli abbandoni, delle perdite e delle ripartenze, della categoria generale costituita da “quello che è e che sarebbe potuto essere”. Separazioni che puntano i riflettori su due protagonisti dove prima ce n’era uno solo.
Così, fatta questa doverosa premessa, si può tornare più coscientemente su “Happiness In Magazines” partendo dagli attori fuori scena: i superstiti Blur si sono lasciare tentare (per fortuna) dalla sperimentazione, dai fraseggi elettronici e dalle suggestioni africane allontanandosi dal brit-pop? Ecco che il loro ex chitarrista Coxon risponde con questo “Happiness In Magazines” che può essere considerato invece come una continuazione più propria di quello che era la musica dei vecchi Blur. In un certo senso chi era il depositario del marchio non l’ha più usato, mentre il nuovo concorrente ha riutilizzato la vecchia formula vincente. Strano, vero?
Ma quello che è più singolare è che entrambi hanno lavorato bene e hanno sfornato degli album che appaiono, per motivazioni diverse, ineccepibili. I Blur hanno segnato il 2003 con l’impressionante svolta alle loro sonorità in adeguamento al mutamento ai canoni musicali di questo decennio, mentre Coxon ha puntato sull’essenzialità e sulla funzionalità del pop rock di sapore tipicamente anglofono, usando l’abc del genere. Non si definisca più brit-pop, per favore: anche se pure un sasso scorgerebbe ne il singolo “Bittersweet Bundle Of Misery” una figlia di “Coffee & Tv” o in “All Over Me” il gusto ballad di pezzi come “The Universal”, le canzoni di “Happiness…” non suonano come un pedissequo ritorno al passato pur non essendo nemmeno del tutto attuali: sono classiche nel senso di rock senza datazione. Il punkettino senza sbavature di “Freakin’ Out” o quello più sghembo di “People Of The Earth” potrebbe in fondo essere collocato nella metà degli anni ’90 come alla fine dei ’70. Stesso discorso per “No Good Time”, che riprende soluzioni inossidabili quasi anni ’50. Le deviazioni western degne di Tito & Tarantula di “Are You Ready?”, poi, hanno il sentore sempreverde di una melodia morriconiana.
Non si avverte quindi la mancanza del lo-fi esplorato nei precedenti quattro album da Coxon, qui effettivamente assente a parte l’approccio indie che non difetta (ben rappresentato anche dal fatto che Coxon suona quasi tutti gli strumenti da solo!). E’ ovvio che quando l’occhialuto chitarrista faceva cd per placare il suo ego (e il suo estro) a freno nella confezione Blur poteva andare a briglia sciolta, ora il curare i particolari suonando meno lo-fi sorge come necessità di completezza personale, oltre che come rivincita nel confronto con gli ex per dimostrare di non essere da meno.
Insomma il match Blur-Coxon si chiude, almeno per adesso, con nessun vincitore proclamato. Ai punti i nuovi Blur hanno saputo fare di più, ma i fans dei Blur che furono non potranno che gioire del fatto che, d’ora in poi, potranno godersi non un bell’album nuovo della loro band preferita, bensì praticamente due. Alla facciazza di chi sostiene che esistono alchimie irrecreabili e paventa che le sottrazioni tolgono da entrambe le parti. Strane le separazioni, vero?