Share This Article
Dall’esordio folgorante di “Sunshine hit me” queste api originarie dell’isola di Wight – uno storico luogo del rock dove la risacca porta ancora a riva corde di chitarra o piccoli trucioli staccatasi dalle bacchette di Keith Moon – si sono ritirate per un certo tempo nel loro alveare, provando a portare miele alla famelica Ape Regina dell’Ispirazione. La psichedelia vintage, morbida e leggera che avvolgeva il primo album si trasforma in materiale più classico, elettrico, meno innovativo: le digressioni spiazzanti nel dub o nel repertorio filo-brasileiro sono rimpiazzate da un suono più beat e apparentemente monolitico, che va ad abbeverarsi al Monviso della musica giovane, a quegli anni ’50 e ’60 ribollenti di idee e ingenuità.
“These are the ghosts”, la canzone che apre il lavoro, è esplicativa di questa nuova direzione artistica. La barra è puntata senza esitazioni verso la stagione che sta tra i tumulti di Berkeley del ’64 e la Summer of Love di tre anni dopo: quell’arco di tempo fu dominato dai Byrds, ai quali viene letteralmente dedicato questo pezzo pieno di cori e controcanti che non sfigurerebbe in “Turn!Turn!Turn!”. La cotta presa dai Bees per Crosby, McGuinn & Co diventa palese manifestazione d’amore nelle due ultime tracce di “Free the Bees”, cavalcate elettriche che incorniciano un progetto dal corpo centrale meno cristallino, dove si punta maggiormente sulla ritmica e la distorsione, approcciando il rhythm ‘n’ blues e il pub-rock ( “Wash in the rain”, davvero trascinante).
Gli anni ’50 vengono omaggiati da una ballad, “I love you”, che potrebbe avere spazio nel repertorio di Paul Anka o, con meno cattiveria, in quello degli Everly Brothers: certo che neanche Umberto Tozzi avrebbe più il coraggio di intitolare una canzone “Ti amo”…
Che i Bees non siano semplici revivalisti ma ottimi musicisti con buone idee lo capiamo dalla verve folle di “Chicken payback”, magistrale proseguimento dei divertissement dell’immenso Rufus Thomas, da una “Hourglass” lunare che trova parentele solo nei momenti più comprensibili della Beta Band, da una “The start” eccellente filastrocca sbilenca e da “The russian”, poderoso instrumental dall’incedere sincopato, una locomotiva musicale impostata sul sostegno del basso, sulla sensualità dell’hammond e sulla carnalità di un drumming di altissimo valore tecnico: un beat tribale di sensazionale potenza che può stare alla pari con lo stratosferico e mai raggiunto “Waltz for Lumumba” dello Spencer Davis Group.
Un buon disco dunque, col pregio non piccolo di migliorare ad ogni ascolto.