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Moltheni è tornato. In maniera sommessa e acustica, quasi in punta di piedi per non disturbare, lasciandosi indietro i suoi primi due cd sonici per abbracciare nuove sonorità più intime, ma è comunque tornato. Per lo zoccolo duro dei suoi fans, che lo amano in maniera sfegatata, questa è una grande notizia. Anche perché stavolta la pausa è stata lunga e la paura tanta che la carriera di questo artista ingiustamente sottovalutato si fosse arenata. Bisognava quindi sentir raccontare direttamente dalla sua voce il cammino che l’ha portato fin qui e cosa ci si deve aspettare dal nuovo album “Splendore terrore”. Occasione per la chiacchierata il concerto al Calamita del 4 dicembre, prima data del tour del cantautore di S. Elpidio a Mare.
Ti avevamo lasciato nel marzo del 2002 all’ultima data della tournée di “Fiducia in un nulla migliore”, al Teatro Dada di Castelfranco Emilia. Cos’è successo da allora?
C’è stato un periodo in cui mi sono proprio fermato, e ciò è derivato dalla delusione dei rapporti che avevo con un’etichetta, di cui non è bello fare il nome, con cui avrei dovuto far uscire il terzo album. Terzo album, registrato con la band come i primi due, che è pronto e poteva uscire questa primavera, ma non è uscito. Per fortuna ho instaurato un buon rapporto con i Tre Allegri Ragazzi Morti con la cui loro etichetta La Tempesta Dischi pubblico “Splendore terrore”. Avrei potuto anche procurarmi altri “rapporti”, attraverso altri miei amici, come ad esempio Carmen Consoli. Dato per scontato che uno trova un distributore, produrre un album non è una cosa poi così irraggiungibile. Non l’ho fatto perché forse non era il momento. Non mi preoccupavo tanto per la mia carriera, e non me ne preoccupo. Sicuramente non ho lasciato un vuoto incolmabile e non lo lascerò se dovessi un giorno smettere, questo è poco ma è sicuro. Sono stato un po’ harakiri artisticamente, parliamoci chiaro. Di occasioni ne ho perse perché mi piace fare le cose che piacciono a me. Ho cercato di trovare il momento giusto, e il momento giusto è arrivato perché ho incontrato una persona, ne è scaturita un’energia, una sorta di serenità che è la base fondamentale del mio carattere.
L’album e il tour sono acustici: scelta, esigenza o necessità?
Inutile nascondersi: economicamente, non avendo né un contratto né un approccio non dico con una major ma con un etichetta che abbia una rilevanza, non eravamo nella possibilità di fare molto diversamente. Potevamo registrare un disco elettrico, perché il disco elettrico esiste come dicevo prima e non possiamo tirarlo fuori, espellerlo, farlo nascere per la burocrazia discografica. Diciamo che abbiamo preferito optare per un’etichetta più piccola che ci ha fatto nascere questo figlio senza braccine e senza gambine, quindi elettrico-acustico, di cui però andiamo molto orgogliosi. C’è un grosso amore anche per questo figlio apparentemente handicappato, ma che in realtà spera di correre.
Quindi questo altro disco c’è già…
Spero di poter dare buone notizie alla stampa fin dall’inizio del prossimo anno. Adesso c’è un’altra novità: sto lavorando, ormai è ufficiale, con la Sugar di Corrado Rustici, per cui ho scritto il testo di un brano che andrà a Sanremo. Poi speriamo di continuare oltre. E’ stata un’occasione, mi ci sono buttato e ha funzionato molto bene, anche se attualmente il mio obiettivo non è quello di scrivere canzoni per altri. Vorrei ancora scrivere per me.
Perché “Splendore terrore”?
Boh. Suona bene. Sono sempre stato molto attento alla fonetica, anche nei miei testi. C’è stato chi mi ha detto, vedendo le due campane raffigurate una in copertina, l’altra nel retro: “Ah, l’hai intitolato così perché si devono sempre sentire le due campane: splendore e terrore”. Ci sono rimasto malissimo perché è vero! Ma non l’ho fatto apposta. Non è la mia interpretazione, ma magari le prossime interviste dirò così!
E le campane sono per dire che sei tornato?
No, in realtà una volta sono capitato in Piazza Maggiore e c’erano i campanari: è stato affascinante. Hanno gli spartiti e c’è tutta una tecnica: c’è uno che parte quando l’altro scampana, e poi si può suonare di andata, di ritorno… I campanari si mettono la corda legata al braccio, tengono la campana ed il batacchio e poi magari lasciano prima la campana e poi il batacchio… E’ uno spettacolo! Mi ha affascinato perché se ti metti vicino ti arriva una potenza sonica che ti stordisce, non ci capisci più niente. Mi è rimasto impresso in questi giorni e a distanza di mesi mi sono detto: “Voglio mettere in copertina una campana!”. E sono andato in biblioteca a fotografare campane da manoscritti dei primi del Novecento.
In quest’album continui a scrivere di te o analizzi la realtà che ti circonda?
L’uno e l’altro. Quello che ho scritto in passato è completamente un autobiografismo, ora galleggio tra la realtà e la fantasia. In “Fiori di carne”, poi, c’è un chiaro riferimento politico. Continua ad essere tutto estremamente autobiografico, ma c’è anche dell’altro. Del resto sono un grosso appassionato di politica degli anni ’70.
Si ringrazia Alessandro Marconcini per la collaborazione.