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Nick Cave è uno di quegli autori che, una volta entrati nella storia del rock (appuntamento che per il buon Nicola è oramai ricordo fumoso, perso tra le brume londinesi e la tecnocratica spazialità di Berlino) ci si sono trovati comodi e hanno deciso di non pianificare troppo la propria esistenza. Tutti gli avvenimenti che si sono susseguiti nel corso degli anni non hanno mai scalfito particolarmente il cantautore australiano, e non c’è da stupirsi se anche questa doppia uscita discografica inibisce frasi del tipo “hai visto? Lo dicevo io…”.
Innanzitutto, com’è oramai notorio, tra le cattive semenze d’accompagnamento non c’è più la chitarra maliziosamente cinica di Blixa Bargeld, il quale ha preferito tornarsene in pianta stabile ai suoi Einsturzende Neubauten dopo vent’anni di onorata carriera al fianco di Cave. E, secondo punto fondamentale, l’impostazione sonora delle canzoni cambia! Ebbene sì, dopo aver cercato nel pianoforte lo strumento caratterizzante del suo suono – con ballate dolenti e strappalacrime che avevano portato l’essenza della musica lontana dal frust(r)ante salmodiare dei primi lavori – tutto viene rinnegato, o meglio riposto nello sgabuzzino, a favore di un blues trasudante e ossessionante che si sposa in molti punti con il gospel (cosa ovvia, vista la collaborazione assidua del London Community Gospel Choir).
La chitarra, la batteria e l’organo la fanno dunque da padroni, insieme alla voce straziata e profonda (ascoltare l’incipit maiuscolo di “Get Ready for Love” per credere) dell’autore. Se l’abbandono delle tematiche fisse degli ultimi lavori appare come una doverosa boccata d’ossigeno – per lui, da un punto di vista creativo, ma soprattutto per noi popolo di ascoltatori, costretti a sorbirci un album come “Nocturama” – appare ancor più coerente e doverosa la scelta di dividere l’album in due tronconi (di per sé due lavori a se stanti: non aspettatevi il “Kill Bill caviano” come alcuni hanno scritto in maniera decisamente impropria). Il primo, come affermavo in precedenza, ci trascina in un universo blues incessante e sporco, risollevato da cori angelici e crescendo romantici, ben lontani comunque dall’aulico incedere di buona parte del repertorio recente. “Cannibal’s Hymn” è il Cave più puro, che dopo aver attraversato pelli diverse torna a bagnare la propria poesia alla fonte del blues senza per questo rinnegare i vari stadi della propria metamorfosi.
Ora, a vent’anni di distanza da quell’esperienza tutto si è fatto più accessibile, ed è possibile ascoltare anche un brano “ovvio” come “Nature Boy”. E va decisamente bene così, perché per cambiar pelle ulteriormente c’è bisogno di mettere nero su bianco anche l’imperfezione, c’è bisogno di accettare anche i propri lati più oscuri – nel senso più deprecabile e sminuente del termine, sia chiaro -. Se l’attacco del secondo cd, dato dalla title-track, sembra voler proseguire il percorso di riappropriazione dei propri prodromi blues, il primo ascolto della seguente traccia “Breathless” è stato un vero e proprio shock! Nessuna esagerazione, credetemi, ascoltare Nick Cave impegnato in un sonetto amoroso (“The Fire of Love is True/and I am Breathless Without You”) mentre tutto attorno si disegna un mondo bucolico nel quale far cinguettare flauti e lasciarsi cullare dal suono pacificante della chitarra acustica è veramente un’esperienza lisergica.
Il resto dell’album non propone (fortunatamente?) queste divagazioni sorprendenti, ma si assesta comunque su sonorità bizzarre per l’ascoltatore classico del cantautore. Rimane la fascinazione mai velata per il gospel a fungere da trait d’union, e rimane la scorticante voce di Cave. Che non regala un capolavoro, ma che spazza via chi lo riteneva oramai destinato a contorcersi all’infinito su se stesso (e io mi metto tra questi) con l’energia di un lavoro “vivo” e decisamente “nuovo” – per gli stilemi dell’autore, c’è da precisare a scanso di equivoci -. Nuova via musicale? Probabile, ma non è così essenziale esserne sicuri. Per adesso rimane solamente la gioia del doversi ricredere.