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Reduce dal 2002 che regalò la psicoanalisi – e autoanalisi – favolistica di “Alice” e il fragore demodé e mitteleuropeo di “Blood Money”, Tom Waits torna alle sonorità sbandate e deformi che raccontano o meglio ancora vivono il sud degli Stati Uniti. E vi torna spogliando il suono di qualsiasi orpello; se nei dischi gemelli era possibile ascoltare corni francesi, marimbe e organi a pompa qui convivono esclusivamente la chitarra di Marc Ribot – e solo ora ci possiamo rendere conto di quanto era mancata! -, il basso di Larry Taylor e le percussioni di Brain Mantia, più il giradischi suonato da Casey Waits. La struttura dei brani evidenzia una ricerca dello spasmo, con le tensioni sonore che puntano all’esasperazione totale, adagiate sulla voce (unico vero elemento essenziale dell’accompagnamento musicale di Waits) che è oramai la messa in musica dell’interpretazione di Max Schrek nel “Nosferatu” di Murnau.
Espressionismo vocale che diventa elegia del Suono Americano, ricercato nel suo senso più profondo. Solo accettando le deformazioni teatrali a cui l’orco di Pomona ci ha abituati dai tempi di “Bone Machine” si può arrivare a capire l’ideologia che muove questo lavoro fino a identificarne gli intenti nel termine (deformabile di suo, e in questo caso destinato allo sfilacciamento più totale) blues. I brevi accenni che sembrano riportare all’esperienza “Swordfishtrombones” e “Rain Dogs”, dettati più che altro dall’inconfondibile timbro chitarristico di cui è dotato Ribot, rendono peraltro evidente la diversità dell’architettura musicale attuale rispetto a quella di un ventennio fa. Quelle intuizioni geniali che rendevano la composizione di Waits simile a una vera e propria pratica di montaggio – nel senso più cinematografico del termine – ha lasciato posto a una sorta di riflessione teatrale sulle possibilità della musica.
Laddove un tempo la musica viveva di temporalità, interessata a un continuo gioco di campo/controcampo musicale, con gli oggetti e gli strumenti destinati a un perenne cut up, ora ci si trova di fronte a uno studio delle possibilità spaziali della musica, posta in un luogo definito (dunque palco teatrale) e costretta a fluire senza permettersi troppi tagli ed ellissi. La musica diventa un elemento in continua evoluzione, come dimostra la straordinaria “Metropolitan Glide”, o destinato comunque a una reiterazione eterna come appare chiaro ascoltando “Sins of My Father”. Quando si distacca dalla matrice più prettamente blues Waits si trova a descrivere traiettorie malate in ballate disilluse e sconfitte eppure circondate da quella malinconia romantica del cui segreto sono custodi i grandi spazi americani (“Dead and Lovely”), a riciclare sul suolo statunitense l’arte maliarda e crudele di Kurt Weill (“Green Grass”), a portare all’inferno l’anima della musica latina fino a trasformarla in una sorta di sabba (“Hoist That Rag”).
Mi si accuserà di essere pregiudizialmente a favore di quest’artista dall’aspetto al contempo minaccioso e bonario, fatto sta che anche di fronte a “Real Gone” non posso fare a meno di rendermi conto di come Tom Waits abbia trovato la fusione perfetta tra tradizionalismo e avanguardia. E, in un’epoca di ricerca maniacale verso le radici del suono americano, si può addirittura scoprire suo (e loro) malgrado “padre” del movimento.