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“Carla è un tipo che/parla e dice che/questo alimento no, non fa per me”: così prende vita il quarto album in studio di Bugo, il secondo da quando ha abbandonato il binomio indipendente Bar La Muerte/Wallace per accasarsi con la Universal. La prima sensazione che si prova all’ascolto di questo doppio lavoro “Golia e Melchiorre” è quello di trovarci di fronte al più grande album pop partorito nella nostra penisola da anni a questa parte.
Bugo è un elemento di disturbo all’interno della produzione musicale nostrana per un evidente difetto industriale: è difficile da etichettare. Si è provato a definirlo “un Beck demenziale”, ma ciò che appare veramente demente è l’affermazione in sé. Si è tirato fuori il nome di Battisti, ma anche in questo caso la connessione fra i due elementi appare di difficile amalgama. La prima verità da enunciare è che Bugo è tutto tranne che un cantautore demenziale; è profondamente indolente, sicuramente amante del paradosso, grottesco fino all’inverosimile (alla fin fine in “Carla è franca” si parla di anoressia, in “Alleluja 1 Rep” compaiono accenni di misticismo e si ricerca una fede a tutti i costi – “dammi una verità/anche se la sai a metà”), ma non demenziale, questo mai. Il suo surrealismo semmai può rimandare al genio gentile di Rino Gaetano, uno che è venuto a mancare veramente troppo presto. Musicalmente effettivamente è quasi impossibile non tirar fuori il nome di Beck Hansen, e per l’uso della matrice sintetica e per le deflagrazioni, ma gli arrangiamenti continuano ad evolvere un proprio percorso di album in album.
I due CD sono perfettamente distinti l’uno dall’altro: “Arriva Golia!” presenta brani sintetizzati, iper-mixati, calderoni strumentali che passano dal pop a svisate pseudo-hip hop (ascoltare “Hasta la schiena sempre” per credere) fino a cadere nella fascinazione elettronica (la cadenza irresistibile di “Devo fare un brec”). Musicalmente l’intreccio si fa spesso e volentieri complesso, come nella conclusiva “Notte giovane” che si apre su un panorama cantautoriale sufficientemente consolidato – e leggermente sporcato da quella vocetta filtrata che interviene con il suo “wah wah wah” – per poi perdersi in un magma noise del tutto irrefrenabile e inaspettato. Dimostrazione della libertà strutturale di cui può godere Bugo, libero di passare dal non-sense autoriale e pop di “Mezzora prima di morire” (“Anche se fuori c’è il sole non vuol dire che fuori piove”) all’inno disco de “Il sintetizzatore”, tra i migliori brani mai scritti da questa penna contemporaneamente arguta e volutamente sciatta.
Ben diverso il mondo circoscritto negli undici brani di “La gioia di Melchiorre”, suonato quasi interamente solo da Bugo e Joe Valeriano. Qui si torna alle atmosfere scarne ed essenziali di “Sentimento westernato”, mostrando il lato più oscuro e silenzioso di Bugo. Musicalmente ovviamente si nota uno scarto in direzione del cantautorato standardizzato e riconosciuto, e come potrebbe essere altrimenti quando gli unici strumenti usati sono la chitarra acustica e l’armonica? Eppure, nella sua timidezza vagamente ubriaca, il secondo volume di questo ragazzotto del Nord Italia presenta delle perle fin dall’incipit affidato alla delicata “Cosa fai stasera” (“come il vino io ti bevo/perché ci metti dentro il ghiaccio?”). Il gioco si fa ovviamente più palese e immediato, ma l’ispirazione di Bugo è ai suoi vertici storici, come dimostra in maniera definitiva un brano come “Non mi arrabbio mai”. E’ poi la volta di “Guardo su”, “Se avessi 50 anni”, “Quando vai via”. Anche se nulla si avvicina a “Rimbambito”, da posizionare di diritto a brani storici come “Casalingo” nella speciale classifica auto-squalificante di Bugo. Chiude il tutto un’elegiaca “Alleluia”.
Un album che è stato prontamente dileggiato da chi considera il surreale un’arte per minorati – e forse lo è, ed è per questo che in un mondo di apparenti normali non trova lo spazio che meriterebbe – e probabilmente incompreso anche da chi lo ha incensato. Qui dentro, con ogni probabilità, è stata scritta la più importante pagina di pop italiano da molti anni a questa parte. Ed è stata scritta bene, forse da una calligrafia che ama essere poco leggibile. Ma a volte basta veramente un po’ di attenzione per rendersi conto della grandezza dell’infinitesimale apparente.