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Sorprende, e non poco, leggere un’intervista agli Hood in cui la band riconosce come principali influenze per questo nuovo album Robert Wyatt e Justin Timberlake; sembra strano perfino scrivere questi due nomi l’uno accanto all’altro, ma poi, all’ascolto, tutto sembra avere un senso: da una parte gli arrangiamenti ricercati e le preziose architetture sonore; dall’altra, potente come mai in passato, una ritmica squadrata che sorregge molte delle composizioni, e in più di un’occasione dichiara esplicitamente l’infatuazione per l’hip-hop. Sarebbe un errore, però, aspettarsi un cambio di rotta così radicale: gli Hood, giunti al sesto album, rimangono fedeli alla loro proverbiale indefinibilità, andando a collocarsi in un ambito sonoro che appartiene a loro e a nessun altro.
Certo, la collaborazione con i cLOUDDEAD deve avere lasciato più di un segno, ma da una ritmica così accentuata si finisce sempre altrove: è il caso di “The negatives…”, con il suo arrangiamento d’archi drammatico e stranamente lineare, o della magnifica “Any hopeful thoughts arrive” (dove è il beat a condurre la canzone, mentre le parti di chitarra sono usate quasi come uno scratch, e il volume di suono di archi e fiati cresce con il passare dei minuti, come una lenta marea), o ancora di “The lost you”, il singolo – e l’orecchiabilità – che gli Hood non avevano mai avuto prima d’ora.
Altrove, dove l’elettronica scompare o finisce in secondo piano, il suono cerca di ricreare le atmosfere degli album precedenti a “Cold house”: le immagini evocative e pastorali di “End of one train working” (la malinconia diffusa come nebbia, la melodia interrotta da violini scartavetrati e da loop vocali) affiancano i raddoppi vocali e il pianoforte di “Closure” e la forma-canzone, finalmente sfiorata in “Still rain fell”.
Un clima malinconico serpeggia in tutto l’album, come se si trattasse di un addio. E, probabilmente, “Outside closer” sarà il congedo degli Hood dal mondo della musica: un titolo come “This is it, forever” (e quei suoi delay sfumati, sempre più lontani) posto alla fine dei solchi lascia pochi dubbi in proposito.
Un peccato, davvero: pochi gruppi, pur rimanendo sconosciuti ai più, hanno saputo cambiare nel corso degli anni, finendo per regalare impalcature sonore così evanescenti e concrete allo stesso tempo; ascoltare il trip-hop trasfigurato di “Winter 72”, la ritmica che guadagna il proscenio per nascondere l’inferno dei feedback, non fa che aumentare i rimpianti per un gruppo che, forse, scomparirà.
Se il post-rock è naufragato nella prevedibilità, nella lagna figlia di uno schema sempre uguale, certo non è colpa degli Hood e della loro malinconia sottile, complessa, indecifrabile.