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“Ovunque ti colti, sei circondata dal suono di una canzone invernale…guardati ora, anche tu stai volando”. Quali parole potrebbero descrivere meglio la sensazione quasi fisica di nuotare nell’aria che ogni ascolto di questo “The secret migration” provoca? Jonathan Donahue canta queste parole sul pianoforte delicato di “First-time mother’s joy (flying)”, ma si potrebbero adattare perfettamente a tutto questo disco. Il sogno che “The secret migration” racconta non è più quello cinematografico e sfuocato di “Deserter’s song”, né quello impalpabile di “All is dream”; qui la sensazione è quella di fluttuare con calma di nuovo verso il suolo, alla ricerca di qualcosa di più concreto: accade così che le chitarre abbiano un corpo più solido che in passato (la corsa trascinante di “Vermillon”, la fiaba elettrica di “In the wilderness”), che la voce si faccia meno aliena, che il pianoforte dipinga immagini più chiare, con luci non più buie, ma da pittori impressionisti.
Tutto il disco sembra cercare un dialogo con la natura: “Ti dirò un segreto, ti venderò un segreto in cambio di una canzone”, canta Donahue in “Secret for a song”, e sembra quasi il racconto di una favola, l’incontro di una Musa con un bambino-cantante smarrito; “in “Black forest” è il pianoforte a tracciare il sentiero, in una canzone intricata e complessa come un bosco, che cita il vecchio mito romantico di una fonte magica, la Lorelei; l’oceano diventa una metafora per rappresentare il corpo di una donna troppo incantevole perché ci si possa innamorare di lei al primo istante (“Across yer ocean”).
E ancora, tra una realtà fiabesca dipinta con colori vividi e un’immaginazione troppo reale, esistono perle come “Diamonds”, con quelle tastiere che riportano a Canterbury, trent’anni orsono, oppure “In a funny way” e il suo ritmo marziale e soffuso (una cosa che avrebbero potuto scrivere i Mazzy Star, se solo fossero stati capaci di sorridere), o ancora “My love”, con quelle chitarre che riverberano come cristalli e salgono verso l’alto, o “Moving on”, che riprende la coralità contagiosa degli allievi Polyphonic Spree.
“The secret migration” potrà anche deludere qualcuno: quelli che, ad esempio, rimpiangono le astrattezze e le unicità degli album precedenti, o le rumorose free form degli esordi; scontenterà quelli che troveranno i Mercury Rev troppo rassicuranti e accomodati sulla forma canzone. Oppure, molto più semplicemente, questo disco deluderà chi non crede più alle favole: perché è un attimo solo, credetemi, chiudere gli occhi e venire trasportati altrove da queste canzoni. Voi credete ancora alle favole?