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Erano rimasti in silenzio per quattro anni, dall’anno domini 2001 durante il quale diedero alla luce la loro opera seconda “Discovery”, perfetto sequel narrativo dell’oramai storico esordio “Homework”, quello di “Around the World” tanto per intenderci. Poi, dopo averli persi tra collaborazioni cinematografiche (vedere l’apporto dato all’ottimo “Interstella 5555”, anime diretto da Kazuhisa Takenouchi) è giunta la notizia del nuovo album e quindi eccoci qui.
“Human After All” è un album ben più complesso di quanto si possa anche solo lontanamente immaginare. E’ demenziale, è vero, pieno di bambinate e di uscite infantili – come la sublime filastrocca ossessionate per bambini androidi “Technologic”, sorta di frullato corrosivo in cui giocare con i miti adolescenziali d’oltralpe, la Lolita/Vanessa Paradis e il bambino prodigio (o meglio infante/marchio registrato) Jordy dur dur d’être bébé -, di divertissement e di continue negazioni di serietà. Tutto questo è perfettamente vero e indiscutibile; ma sotto questa coltre di apparente superficialità – superficialità che è poi lo specchio della nostra società, abituata a descrivere l’universo anche quando sta indicando un plastico in un ufficio immobiliare – si nascondono tre quarti d’ora di ottima musica.
La title-track rappresenta perfettamente le intenzioni della band; un ritmo serrato, battiti incessanti accompagnati da fluire chitarristico, da riffs imperdibili. Un brano superlativo, cinque minuti in cui i Daft Punk toccano probabilmente uno dei punti più alti della loro carriera, e che fa da apripista a un concentrato di meccanicismo house, come l’accelerazione autodistruttiva che conclude “Prime Time of Your Life”, ipotesi rock ben stilizzate nella pacchianeria pseudo-metal di “The Brainwasher”, ibridi come il singolo “Robot Rock” dove tutto ciò che è dato sapere è nascosto nel dualismo esasperato del titolo.
I Daft Punk, come già intuito in “Discovery”, amano giocare con l’iconografia fumettista e pop, neanche fossero usciti da una costola iper-reale di Jacques Rivette o da una versione post-moderna e commerciale degli incubi artaudiani, e in “Human After All” non si smentiscono: e se lo fanno in maniera fin troppo esplicita nei venti secondi di “On/Off”, sintesi uditiva di un ipotetico zapping mediale, riescono a raggiungere il bersaglio definitivamente grazie allo splendore di “Make Love”, delicato giro su se stessi, danza mesta e dolce. C’è poi da annotare l’attacco al cuore di “Steam Machine” e poi, una dopo l’altra in bella sequenza, “Television Rules the Nation”, la già citata “Technologic” e “Emotion”, ovvero il varietà dell’ovvio e dell’irriverenza idiota. Perché i Daft Punk, icone del pianeta Crypton, non si smentiscono mai. Evviva!