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La Sub Pop si è dimostrata non poco lungimirante nel far esordire per la loro label i Comets On Fire reduci dall’avventura Ba Da Bing dell’ottimo “Field Recordings From The Sun” e dall’esordio omonimo autoprodotto e poi ricomprato e messo in circolo dall’Alternative Tentacles. La casa di produzione di Seattle, da sempre citata quando si fa riferimento a quel fenomeno mediatico mondiale che fu il Grunge, sta dimostrando una varietà d’intenti e un’acutezza nella scelta dei nomi da lanciare veramente notevole: dai nostrani Jennifer Gentle al rock disossato dei Low, dai St. Germain alla frenesia dei Wolf Eyes, passando per il conservatorismo rurale di Iron & Wine fino ad approdare per l’appunto sulle sponde dei Comets On Fire. Che presentano un attacco furibondo e continuo alle direttrici rock, fin dalla stupefacente “The Bee and the Cracking Egg” che apre l’album con una rabbia e un incessante ricerca dello scontro sonoro che riesce ad andare ben oltre le restrizioni delle etichette – tra acide chitarre seventies, bassi pestati, esplosioni di rumori, boati e cadute nell’astrazione da feedback -.
Dopotutto le diverse anime che abitano questo corpo musicale partono da azioni e idee ben diverse fra loro, dando asilo ad esempio a Ben Chasny dei Six Organs of Admittance, tra le espressioni più pure del folk contemporaneo. E, nonostante un pur sempre dichiarato amore verso la psichedelia hard di un trentennio fa – a parte la già citata apertura come non interpretare sotto quest’ottica il fluire sotterraneo di “Whiskey River” o l’urlata e snervata andatura di “Death Squad”? – è sempre possibile notare la tendenza ad architettare vie parallele, passaggi evasivi necessari per impedirsi una caduta nel semplice e anacronistico revival. Che proprio non è negli intenti della band, come dimostrano l’ammaliante “Pussy Footin’ the Duke” e l’uso straniato degli strumenti – la chitarra che preferisce gettarsi in ipotesi rumoriste piuttosto che cedere alla facile e banale etica dell’assolo, tanto per dirne una -. Insomma, l’ennesima dimostrazione di una volontà di indipendenza che sembra l’aspetto più consolidato del combo, e che permette di annoverare “Blue Cathedral” tra i migliori album del 2004.
Apparentemente solido come una roccia, ma in grado in realtà di rendersi friabile all’occorrenza. Come nel minuto e mezzo – e poco più – di “Organs”, in cui la pace è continuamente sovrastata da una magmatica sensazione di inadeguatezza e di pericolo. Come i nostri anni, e come le comete destinate a estinguersi nel fuoco.