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“Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”. (Guy Debord, La società dello spettacolo, 1967)
Può apparire bizzarro avvicinare al nome di Guy Debord, probabilmente il pensatore più lungimirante dell’era moderna, a quello dei Fratelli Sberlicchio, band che ama definire la propria musica bastard pop e che si presenta come un insieme di otto elementi che producono, o meglio RI-producono musica. Eppure nella critica alla società dello spettacolo che lancia il filosofo francese è possibile leggere l’anticipazione di ciò a cui chiunque può assistere ascoltando questo “discodelirio”: una rappresentazione contemporanea di un mondo musicale morto o quantomeno finito in naftalina.
Il demenziale volontario (quello di Arbore e del suo “Cacao Meravigliao” che furoreggiò in televisione venti anni fa, quello di Salce/Banfi e del “disse il fratellone al fratellino: oh oh vieni avanti cretino!”) e quello involontario (i Jalisse, corpo in putrefazione riesumato da un Sanremo di qualche anno fa, il patetismo malinconico dei Pooh di “Tanta voglia di lei”) rinascono a nuova vita, diligentemente messi in scena dalla band che mescola le carte rileggendo la già citata “Tanta voglia di lei” neanche fosse un brano dei Subsonica – e l’intro è presa para para da “Tutti i miei sbagli” –. Se spesso e volentieri l’apparato mnemonico costringe l’ascoltatore a lasciarsi andare al flusso dei ricordi ritrovandosi a sorridere (per chi scrive questo strano fenomeno è avvenuto all’ascolto di “Vieni avanti cretino”, “Ti rockerò” – che si apre sul riff di “My Sharona” degli Knack, e “Girls Just Want To Have Fun” trasformata in un indiavolato punk-pop con tanto di “Can Can”) non si può evitare la riflessione sul significato di un lavoro di questo stampo.
Oh, non che i Fratelli Sberlicchio siano i primi a lanciarsi in un’operazione del genere, il che rende il quadro ancora più preoccupante. Arrivata all’esasperazione dei contenuti, la spettacolarizzazione della società si trova a ridere di sé, senza rendersi conto di come spesso e volentieri la parodia fosse già presente negli originali. Una deriva sociale che si riflette in maniera cristallina in un’ideale musicale teso a un passatismo francamente spesso e volentieri fine a se stesso e vacuo. E sono conscio di aver aperto uno squarcio del tutto estraneo alle volontà della band, interessata più semplicemente a un “famose quattro risate” senza particolari velleità. Ma proprio per questo sarebbe il caso di porsi l’interrogativo su cosa è morale e cosa no: “Discodelirio” dei Fratelli Sberlicchio è un album che si pone come parodia della società dello spettacolo, quella televisiva e omologante del “Gioca jouer” cecchettiano, ma altro non è che un prodotto della medesima società.
Tra vent’anni, ed è questo il vero rischio, assisteremo a una band che rifà parodiandole le canzoni dei Fratelli Sberlicchio che parodiavano gli originali di vent’anni fa. Un vero e proprio gioco al massacro. Tutto si fa improvvisamente chiaro e semplice: se vi va di fare un discorso prettamente musicale e sociale, prendete questo cd e nascondetelo nel più buio cassetto. Se, nonostante tutto, volete farvi quattro risate ripensando alla vostra infanzia, mettetelo nel lettore.