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Non scopro certo una novità, se scrivo che nel circuito indie essere snob è una specie di obbligo. Bisogna denigrare certe cose, correre dietro alle ultime mode dell’NME, essere aggiornati sull’ennesima meteora inglese…ascoltare indie rock è una gran fatica. Perdonatemi, allora, se mi tengo ben stretto un gruppo come i Perturbazione. Ho un debole per loro, e non ne faccio mistero: hanno il coraggio di scrivere canzoni, di essere sentimentali, di guardare le cose con uno sguardo timido, disilluso, ironico, di chi si innamora dei particolari e trova la bellezza nei posti più impensati (“Preferisco di gran lunga la bellezza inconsapevole / di una coppia di ragazze che conversano lontano / alle facce toste indomite che le spogliano con gli occhi”, canta Tommaso ne “Il materiale e l’immaginario”).
Hanno quella gentilezza, quel tocco lieve, che io chiedo a una canzone pop: cercando un loro linguaggio (quelle chitarre lineari e poi improvvisamente alla ricerca di un passaggio melodico ardito, quella voce confidenziale, quel violoncello sempre presente come un’ombra leggera), hanno finito per diventare unici. Sono cambiati, certo, dalle travolgenti bellezze di “In circolo”: sembrano aver perso la voglia di giocare, sono diventati più malinconici, sentono più il peso delle emozioni sulle spalle, ma la sincerità di quello che cantano è rimasta la stessa.
E dunque, è molto facile cadere nelle trame soffuse di “Canzoni allo specchio”, perdersi nella trama liquida e sottile di “Dieci anni dopo” (il ricordo degli stessi errori che ritornano), o in quel singolo complesso ma perfetto – e con un passaggio di chitarra acustica splendidamente obliquo nel finale – chiamato “Chiedo alla polvere”, o ancora farsi stupire dalla disillusa crudezza verbale di “Animalia” per poi ritrovarsi a canticchiare, con un sorriso felice ed inebetito, una “Se mi scrivi” non bellissima, ma leggera e innamorata di Burt Bacharach come non mai.
Ma, si diceva, “Canzoni allo specchio” non è un disco felice, e una tristezza avvolgente ammanta le “Spalle strette” (con la riconoscibilissima chitarra di Paolo Benvegnù), o lo splendido duetto con Rachele dei Baustelle in “A luce spenta”, o ancora la “Canzone allo specchio” che è il vero cuore del disco, e si allunga in uno dei pochi momenti realmente elettrici; quando però la tristezza si fa troppo insistita (come in “La fine di qualcosa”), tutto questo appare un po’ forzato, e fa emergere il vero difetto del disco, vale a dire un estrema uniformità negli arrangiamenti: in confronto all’esuberanza con cui Fabio Magistrali aveva trattato le canzoni di “In circolo”, la produzione di Paolo Benvegnù appiattisce troppo i suoni, rendendo alcuni passaggi quasi opprimenti. Ma, in fondo, non importa: “Canzoni allo specchio” sta accompagnando le mie giornate, e continua a rendermi triste, poi allegro, poi malinconico, per strapparmi infine un sorriso. Sono uno stupido sentimentale, lo so, ma mi sono innamorato di nuovo…