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C’è un punto fondamentale per comprendere in pieno l’ascolto di un album come “Ballate per piccole iene”: il quinto album in studio di Manuel Agnelli e compagnia da quando hanno scelto l’idioma della madre patria per i loro testi è la conferma di quanto già supposto dopo l’uscita di “Quello che non c’è”. Gli Afterhours sono un gruppo importante per la musica italiana, e questa categoria va ben oltre la mera riflessione sul valore in sé del loro ultimo album. Semplicemente la band milanese ricopre un ruolo fondamentale all’interno della discografia nazionale, fornendo un ideale trait d’union tra la musica massificata, quella dei megaconcerti, dei raduni all’aperto, dell’ipertrofia e dell’elefantiasi, e la nicchia del rock per puri amatori – che a Milano può vantare una delle scene più interessanti, tra le intuizioni produttive della Wallace e della Bar La Muerte -.
Perché gli Afterhours nascono nell’indipendenza tout court e, raggiunta gloria e fama, hanno cercato in qualche modo di sostenerla (nel progetto mai totalmente compiuto del Tora! Tora! Tora!). Il rock proposto nel 2005 da Agnelli non ha più probabilmente le sfuriate epilettiche degli esordi – episodi celeberrimi come “Lasciami leccare l’adrenalina” o “Dea” risulterebbero inadatti alla bisogna nella contemporaneità – ma preferisce procedere per accumulazione, stratificazione di suoni, esasperazione ed esplosione di rumori e voci (quella di Agnelli raramente così espressiva alla quale si aggiunge il controcanto dell’onnipresente guest star Greg Dulli, in compagnia del gruppo anche durante l’ultima tournée in giro per la penisola).
Il simbolo del nuovo corso musicale – già intrapreso in buona parte con “Quello che non c’è” – è identificabile proprio in “Ballata per la mia piccola iena”: ballata ossessiva caratterizzata da un continuo crescendo mozzafiato, snervante inseguimento privo di alcuna catarsi finale, nevrotico come la voce di Agnelli che vi accompagna un testo crudele, disilluso e continuamente alla ricerca della purezza. Le code musicali si sprecano, con gli strumenti lanciati e pestati, come in “E’ la fine la più importante” o nell’ansiogena “Il sangue di Giuda”. Altrove l’atmosfera si fa meno stressata, dedita a ipotetiche ninnananne drogate (“Ci sono molti modi”), ma quando la ballata torna a farla da padrone sembra di assistere a un Nick Cave degli ultimi anni privo di digressioni mistiche e meno teso alla quadratura del cerchio (l’ottima “Carne fresca”, ad esempio).
Quando l’ago della bilancia si sposta su territori maggiormente pop handclap si mescolano alle solite chitarre senza pace (“La vedova bianca”) mentre il tutto si conclude sullo scarno panorama di feedback e accenni di batteria di “Il compleanno di Andrea”. L’ennesimo ottimo lavoro degli Afterhours coincide con la necessità di trovare in loro l’istituzione del rock italiano: i Marlene Kuntz continuano a mostrare troppe facce al loro interno, pronti a cadere in qualsiasi momento e incapaci di ritrovare le coordinate del tempo che fu, i PGR non hanno alcuna intenzione di essere idolo né megafono. Manuel Agnelli sembra avere le carte in regola (più dei suoi colleghi, compresi esempi mainstream quali Subsonica o – Dio ce ne scampi e liberi – Le vibrazioni) per ergersi come punto di riferimento di un modo di approcciarsi al rock nella nostra terra. Senza aspettarsi avanguardia o eversione da loro, perché non hanno alcun interesse per questo aspetto della musica. Ma senza timore di vederli travestiti da “piccole iene”: dopotutto, come disse anni fa ironicamente Agnelli “E non credere a chi dice che mi sto prostituendo/perché faccio quel che voglio e mi fa sentire meglio”.