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Yoshimi vocalizza a più non posso, senza darsi direttive definite, prima di lanciarsi in una nota prolungata che diviene la rampa di lancio per una percussione ritmica complessa, tribale, convulsa ed estremamente sovrapposta tra tamburi, piatti e tintinnii. Mentre la musica sembra tendersi nell’accelerazione continua e spasmodica verso un’esplosione catartica e vagamente jazzata la voce si fa maggiormente corposa ed evocativa.
Questa è “Seadrun”, composizione d’apertura del dittico di brani – una ventina di minuti l’uno – che è anche l’ultima fatica dei Boredoms, principale band nipponica, avvezza al trasformismo come pochi ensamble possono dire di essere mai stati. La musica contemporanea è riletta nella mente di Yamatsuka Eye come una corsa sfrenata, libera da compromessi, una jam infinita rivitalizzante e scatenante, ultima ancora di salvezza da un mondo fin troppo catalogato, circoscritto, definito. E non è certo un caso che l’intero impianto sonoro si adagi sull’aspetto percussivo: dopotutto sono proprio i Boredoms ad aver sperimentato dal vivo l’uso di doppia e tripla batteria, moltiplicazione all’eccesso della ritmica, elemento essenziale dell’architettura sonora. Musica che si trasforma di colpo in esperienza collettiva, rituale, tribale, dal valore mistico eppure costantemente abbarbicato a una carnalità feroce, sudata, quasi animalesca.
Musica capace comunque di sfumare in poche ed evocative note di pianoforte. “House of Sun” rappresenta perfettamente l’altro lato dello specchio: qui la mistica si fa tutto tranne che sudata e carnale, ma diventa bensì un viaggio psichedelico assolato e bucolico, adagiato su strumenti quali il sitar e il flauto. Permangono riverberi a minacciare la pace, ma questa non riesce ad essere mai corrotta trascinandosi lungo i venti minuti sempre più ipnotica, tappeto sonoro drogato e ottundente dal sapore vagamente oppiaceo. La voce viene ridotta qui al silenzio, l’umanità si va a rintanare sovrastata dall’essenza stessa del suono mentre il brano prosegue la sua ascesa al cielo, etereo.
Un album che fa apparire il lato più vagamente Hippie dei Boredoms, quello più ancorato agli anni ’70 – anche se in realtà a tratti sembra di assistere a un concerto di santoni zen che rifanno brani di Sun Ra -, e che dimostra ulteriormente la varietà di stili e intenti che Yamakutsa Eye e compagnia riesce di volta a volta a creare. La palingenesi come manifesto programmatico, verrebbe da dire. A loro modo (nonostante la poca fama che godono nella nostra dormiente penisola) immortali.