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Il progetto musicale dei Kech, dopo l’esordio promettente “Are You Safe?”, inizia a mostrare i segni inequivocabili di personalizzazione. Se due anni fa si aveva avuto l’occasione per rimarcare la capacità di giocare con il pop rumoroso accostando il nome del quintetto monzese a quello delle Breeders di Kim Deal – e ovviamente il riferimento era dovuto anche alla voce femminile in primo piano – ora i giochi si fanno decisamente più complessi. Nulla di cui preoccuparsi, l’immediatezza rimane uno dei tratti distintivi della band, e la sensazione di “bere un bicchiere di vino dopo un pranzo pesantissimo”, come accennò all’epoca Daniele Paletta, continua a essere la metafora più azzeccata. Ma l’ago della bilancia si sta spostando in maniera decisa verso territori sempre più lontani dal rumorismo, dai feedback, da ipotesi punk.
A oggi il suono dei Kech è un concentrato di puro pop; a volte si notano ancora le angolature tipiche della vena compositiva di Kim Deal (ascoltare l’apertura data da “The Cousins”) o riferimenti all’indie rock come nell’incedere tipicamente Pixies di “Uh-Uh”, ma altrove le atmosfere sono ben diverse. Tra ipotesi vagamente country (“Clifford”), Frank Black in odore di matrimonio dylaniano con gli Eels (“I Don’t Need One”), malinconiche ballate per voce rauca sottilmente jazzate (“Coldground”) e accenni di pop sinfonico (“Nu Beetle”) l’album scivola via che è un vero piacere per le orecchie. Ancora non tutto sembra perfettamente oliato e alcuni brani mostrano la corda, come la già sentita “Pop Team”, ma non si può certo pretendere la perfezione.
Resta la sensazione di un gruppo vivo, senza alcuna intenzione di fossilizzarsi e in continuo movimento, con un dono per la leggerezza che sarebbe un peccato sprecare in futuro. Un pop gentile e rilassante, quello dei Kech da Monza. Il bicchiere di vino è ancora frizzante e, quello che più conta, appare mezzo pieno.