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Khonnor è l’ennesimo pseudonimo adottato da un One Man Band. Dietro questo moniker si cela Connor Kirby, diciassettenne statunitense; sì, avete letto bene, diciassettenne. La precocità sta diventando tratto distintivo del cantautorato contemporaneo – basti pensare al genio polimorfo di Patrick Wolf, che ha iniziato ad incidere a undici anni in beata solitudine – e non mi stupirei se da qui a cinque/sei anni il mercato fosse sommerso da imberbi armati di strumenti alla conquista del mondo.
Mi stupirei e non poco invece se mi capitasse di imbattermi in qualcosa di maturo come questo “Handwriting”: il pop in bilico tra istantanee folk, elettricità ed elettronica lo-fi e voli pindarici in odore di psichedelia – la chitarra acida che si adatta a tappeto nel sottofondo disturbato della splendida “Man From the Anthill”, ad esempio – non è certo un guazzabuglio poi così originale (anche se il Nostro dimostra una notevole personalità e alcune pur acerbe intuizioni autoriali) ma è delineato con una tale chiarezza d’intenti e una classe così cristallina da lasciare stupefatti. Tra ballatone strappalacrime che riportano alla mente proprio il “fratellino maggiore” Wolf (“Daylight and Delight” su tutte, con quell’ariosità incapace di spiccare completamente il volo, costretta a terra dai riverberi e da interferenze spigolose) e elegie per organo in cui derive elettroniche e batterie monotone ne edificano l’architettura (“Kill2”) c’è spazio per rimandi neanche troppo velati a Fennesz e per puro shoegazing spogliato di elettricità che più che ai My Bloody Valentine riporta alla mente la rilettura recentissima dei Radio Dept. (“An Ape is Loose”).
Il minuto e mezzo scarso di “I Was Everything You Wanted Until I Quit” che va a concludere “Screen Love, Space and the Time Man” sembra un frammento perduto per caso dai Sigur Ros o dai Radiohead di “Kid A”, ma i capolavori restano la melanconica “Dusty”, balletto in minore laconico e desolato in cui il ritmo sostenuto della chitarra viene smembrato e vilipeso dal sottofondo orchestrale e soprattutto “Phone Calls for You”, in cui i Beat elettronici e gli arpeggi di chitarra corrono uno accanto all’altro in perfetta simbiosi, si sostengono l’un l’altro mentre la voce sembra un Ricky Nelson robotizzato che canta da un mondo altro ma ancora incapace di perdere fino in fondo la sua umanità. Una canzone che vale una vita artistica, decisamente, apice di un lavoro che meriterebbe menzioni a non finire per l’arguzia, la classe, la capacità di mostrarsi fragile senza crollare mai via e senza lasciarsi prendere la mano. E’ classe 1987 questo Connor Kirby alias Khonnor, ed è stato capace di accarezzare il pop senza farlo svegliare di soprassalto. Complimenti vivissimi.