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Lydia Lunch è stata, e forse sarà sempre, il simbolo di un’epoca in cui New York fu culla dominante della cultura, divisa tra gli esperimenti visivi di Richard Kern e la disillusione di Jim Jarmusch, tra le Waves (New o No che fossero) musicali e gli ultimi rigurgiti di poesia Beat. La Lunch rappresentava una figura fumosa, ombra di qualsiasi luce possibile. E il fatto che ora torni, a cinque anni da “Matrikamantra”, proprio con un “Smoke in the Shadows” esplicita da subito il punto nodale della questione: Lydia Lunch in questi cinque anni, così come nei venti anni precedenti, non è cambiata di una virgola.
Continua a far aggirare la sua voce tra accenni di tenebra, sprazzi di New Orleans sepolti e imputriditi, qualche sporcizia figlia della New Wave, carcasse che una volta furono epica noir. Il mondo di Lydia Lunch è la decadenza, sotto qualsiasi forma riusciate a immaginarvela: quando in “I Love How You…” la sua voce combatte una guerra della disillusione con il sax mentre il basso si fa largo in sottofondo sembra realmente che il tempo non sia mai esistito. Lydia Lunch è la memoria storica degli anni ’80 – tutti i suoi colleghi in un modo o nell’altro, in meglio o in peggio, sono evoluti, lei no – ma è anni ’80 come può esserlo “Brivido caldo” di Lawrence Kasdan, noir post-noir. E’ una anni ’80 che aspira ad essere anni ’40 e che, quando di colpo si accorge di essere arrivata fino al 2000, cerca appigli vacui nella contemporaneità – la logorrea quasi hip hop di “Touch My Evil” – senza riuscire di fatto a trovarli.
La ricordavo compartecipe di un brano nel bel “Downworks” dei Minox e allora come ora mi rendo conto della classe indiscutibile di questa icona del rock (?) al femminile. Ma quando la classe resta da sola, costretta a combattere con un’ispirazione vaga e ben poco stimolante – l’album tra l’altro è inutilmente tirato per le lunghe -, allora non resta che accettare la sconfitta. Di quell’epoca che fu forse è veramente rimasto solo un po’ di fumo nell’ombra…