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Forse è il caso di fare un salto indietro e di accennare qualcosa al volo sul “Jewelled Antler Collective”, ovvero la casa base per tutti quei personaggi, quei freak, quei sognatori che nell’America ben poco rurale di inizio ventunesimo secolo hanno deciso di riproporre al mondo i suoni campestri e bucolici tipici del folk. Da questo collettivo sono venuti fuori di Thuja, i Birdtree, gli Ivytree, i Blithe Sons, ed è passata per la comune gente come Christina Carter, i Black Forest/Black Sea e chi più ne ha più ne metta.
Tutti questi nomi – o quasi – non possono comunque prescindere dalla volontà e dall’acume artistico di Glenn Donaldson, partoriente al 50% anche del progetto The Skygreen Leopards; l’altra metà spetta di diritto a Donovan Quinn, a sua volta nascosto spesso e volentieri dietro il moniker “Verdure”. Insieme i due hanno dato alle stampe “One Thousand Bird Ceremony”, album splendido quanto di difficile reperibilità, e hanno dunque smosso l’interesse della Jagjaguwar, attualmente una delle più interessanti etichette indie mondiali (basterebbe citare, all’interno del suo ricco catalogo, i nomi degli Oneida, degli Union of a Man and a Woman, dei Pink Mountaintops e di Richard Youngs per rendersi conto dell’importanza dell’offerta), che gli ha offerto spazio all’interno della label.
Qui il duo si è subito dato da fare dando alle stampe in brevissimo tempo il 12” in vinile “Child-god in the Garden of Idols” e l’album sulla lunga distanza “Life & Love in Sparrow’s Meadow”. Rispetto alla maggior parte dei lavori usciti sul mercato finora e racchiusi dalla critica nel new folk il progetto di Donaldson e Quinn differisce per una serie di caratteristiche peculiari assolutamente da non sottovalutare. Innanzitutto i brani sembrano improntati a un’articolazione e a una cura del suono e dei dettagli finora sconosciuta alla maggior parte delle band dell’avant-folk: se questo è probabilmente da leggere retrospettivamente come una dimostrazione di forza da parte della casa produttrice è indubbio che “Life & Love in Sparrow’s Meadow” – perché di questo lavoro qui ora ci occupiamo – mostri forte e palese una fascinazione per i dettami del pop.
La musica è decisamente accessibile, spesso carica di quella psichedelia gentile che si può ritrovare in molti episodi pop dei sixties (ascoltare la perla “Egyptian Rosemarie” per credere, ballata straordinaria che appare come una rilettura edulcorata e spogliata delle asprezze psicotiche dei lavori dell’Incredible String Band), ma questo non intacca assolutamente la perfezione dell’insieme. Anzi, spesso si ha l’impressione di assistere a dei Byrds intellettuali che vanno in giro per le campagne dell’America con le rime dei cantastorie nella testa. E anche quando le trame sonore si fanno francamente prevedibili rimane l’estatico splendore di un tempo passato (o forse, più probabilmente, di un mondo che non riusciamo a comprendere appieno, chiusi nelle nostre culle di cemento e mattoni).
C’è da chiedersi dove potranno e vorranno spingersi questi Skygreen Leopards; assisteremo in futuro a un progressivo avvicinamento alle forme musicali che già conoscevamo – più aspre, meno concilianti, meno ricamate – o continueremo a osservare il continuo inglobarsi nel pop dell’intero progetto? Visti i tempi a cui ci hanno abituato gli esponenti di questa florida area musicale dubito che quest’interrogativo perdurerà a lungo. Per ora tutto rimane sospeso tra il luccicare pop di alcuni brani e pause ammalianti come “Minotaur (Burn a Candle for Love)”. E va decisamente bene così.