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Scrivere di un disco come questo a mesi distanza dalla sua uscita, considerando tutte le ottime parole spese in lungo e in largo, un bel concerto in cui l’autore si è dimostrato un artista – effettivamente – di livello e gli ascolti dedicati all’opera (di gran lunga superiori a quelli per altre recensioni, ma qui si tratta solo di una questione temporale), può essere vista come una scelta un po’ comoda. Per certi versi è così, anche perché parlandone ora, con un hype in fase calante, è sicuramente più facile anche se non meno onesto. Già, perché l’universo musicale in cui si muove Micah P. Hinson è certamente una dimensione definita dove muoversi non è certo impresa ardua.
Quello che risulta difficile è assimilare pienamente la condizione in cui queste canzoni sono nate e cresciute. Leggenda vuole infatti, che all’alba della genesi del suo debutto discografico Micah si trovasse sull’orlo del baratro: innamorato non corrisposto, vagabondo per le strade della sua città, annebbiato dalle droghe. È stato poi determinante l’intervento di alcuni componente degli Earlies per far tornare in vita l’autore che, rinchiuso in uno studio di registrazione, ha sfogato tutto quello che si portava dentro generando quindi le tredici, bellissime, canzoni che compongono “Micah P. Hinson and the Gospel of Process”.
Mitologia rock o mistificazione mediatica? Non si sa, ma anche se fosse sarebbero francamente problemi secondari in quanto l’intensità e la passione che brilla su ogni movimento di questo album mette qualsiasi eventuale dietrologia in secondo piano e, probabilmente, rende addirittura inutile ogni avvisaglia di lavoro critico. Merito di una voce che si impegna nella tragicità country di un Johnny Cash del ventunesimo secolo e nella malinconia folk propria della terra di mezzo che è la provincia americana (dalla quale Micah proviene), di una musica che riempie lo spazio senza mai ingombrare, reggendosi su lievi melodie di pianoforte (“The possibilities”) o giri di chitarra acustica tanto lenti quanto catartici (“Don’t you”, o la bellissima e conclusiva “The day Texas sank to the bottom of the sea”, vero capolavoro NEL capolavoro), dove l’intensità crescente della tensione emotiva crolla nei contrappunti creati dall’insieme di queste canzoni. Drammatiche e sanguinanti quanto liberatrici e autentiche (“At last, our promises”).
Perché “Micah P. Hinson and the Gospel of Process” è uno di quei lavori che sanno di vita nella misura in cui puzzano di morte, come a confermare che solo quando si tocca il fondo è possibile rinascere. Ma per ogni volta che si è trattato di un luogo comune e una vera – questa sì – posizione di comodo, questo disco offre una conferma di verità. Non di quelle assolute, ma di quelle talmente crude e lancinanti che ti portano a fregartene del resto. Perché è qui e ora che si sta celebrando qualcosa di vero, e lascio volentieri ogni malizia a chi non ha nient’altro di meglio da fare.