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Cos’è la libertà?
A volte mi ritrovo a pormi domande esistenziali (e dunque idiote nel senso etimologico del termine, derivato da idiòs, privato, estraneo agli affari dello Stato), dettate principalmente dall’umoralità, dalle amicizie e dai luoghi che frequento, dalla meteorologia e dall’afflusso di sangue al cervello. Solitamente questi quesiti mi abbandonano con la stessa velocità con cui un branco di piranha riesce a sbranare un bue nel punto magico in cui il Rio Blanco e il Rio Negro si congiungono. Ma altre volte le domande tornano ciclicamente a imperversare nel mio cervelletto. Cos’è, dunque, la libertà? Oggigiorno si combattono bieche guerre economiche e geopolitiche in suo nome, e libertà campeggia addirittura in nomi di schieramenti politici che presumibilmente la confondono con termini quali evasione, conflitto d’interessi, qualunquismo.
Accade però che nell’isolotto di Villa Ada, baciato dalla frescura, salga sul palco poco dopo le dieci di sera uno spilungone, vestito di sonagli, con la barba e i capelli finalmente congiunti nello sforzo di far scomparire il volto dalla pubblica vista. Entrance, questo il suo nickname – e quanta poesia involontaria si nasconde dietro questa scelta – all’apparenza sembra un incrocio tra un relitto hippie, resuscitato trent’anni dopo l’epopea dei fricchettoni, e uno dei tanti barboni che affollano gli angoli delle strade metropolitane; e nulla impedisce che lo sia sul serio (hippie o barbone, a voi la scelta).
Accade che Entrance dopo aver accordato la chitarra si rivolga al pubblico e pronunci in un italiano zoppicante una sequela di parole: “buongiorno, grazie molte, libertà, minchia, ciucco”.
Ecco dunque che si torna a ragionare sulla libertà. Entrance è praticamente la versione intorpidita e slabbrata di Devendra Banhart: laddove l’autore di “Rejoicing in the Hands” è millimetrico nella sua anarchia gentile Entrance è tribale, selvaggio, molto meno accondiscendente. E, punto non di minima importanza, anche notevolmente alticcio. Ciò che esce dalla sua chitarra è un suono intrecciato, riverberato, ossessionante, alla ricerca di una pace che trova solo per brevi istanti prima di ripiombare nel frastuono e nel feedback. La ritmica, da vero One Man Band, gliela tengono quei sonagli sparpagliati per tutto il corpo, e ogni tanto Entrance abbandona la chitarra per fracassare – nel vero senso della parola! – un tamburello che ha sicuramente visto giorni migliori. Difficile descrivere realmente questo folletto affetto da gigantismo, certo è che la libertà effettivamente può essere anche questo, la totale perdita di inibizione, la cocciuta volontà di non dover trovare la postura più comoda in troni già intagliati ma di costruire scranni di volta in volta. Entrance (“come dite qui…entrata, entrata”, affermerà a fine concerto) è quello che è e non pare intenzionato a lasciarsi comprare, almeno per ora, e preferisce interrompere una canzone per poter continuare a nominare le persone da ringraziare – non le ho contate, ma avrà tirato fuori almeno una ventina di nomi – piuttosto che dare al pubblico un piatto già pregustato. Invidiabile.
Per completare definitivamente il discorso sulla libertà basta assistere al concerto di Devendra Banhart, accompagnato sul palco capitolino dai Vetiver, fedeli nei secoli dei secoli: su queste pagine ondine si è già avuto modo di descrivere l’indole messa in mostra dal vivo dal cantautore statunitense, e l’interpretazione dei brani, rispetto al concerto dell’ottobre scorso (lì ad aprire furono le Cocorosie) all’Alpheus (vedi recensione), è variato quasi esclusivamente per via della scaletta, con cinque brani inediti proposti al pubblico; molto spazio è stato come al solito regalato alla coda delle canzoni, dilatate in un crescendo continuo degli strumenti, e il cui simbolo musicale si può rintracciare nella splendida “This Beard is for Siobhan”, resa più isterica e corposa. Ma la lezione vera e propria Banhart non la dà solo esclusivamente attraverso la musica, ma attraverso le modalità stesse con cui occupa lo spazio del palco. Così come le code interminabili delle canzoni anche lo spazio fisico viene dilatato e stravolto.
Non vi è più la necessità di attenersi a un protocollo o di rispettare regole ferree; così Devendra scherza ripetutamente con il pubblico, soprattutto con un gruppetto si esagitati intenzionati a far sentire prepotentemente la propria presenza…il cantore del neo-folk li guarda con il sorriso e chiede “come si dice Fuck in italiano?”. La risposta è un “fottiti” generale, con il quale Banhart improvvisa una instant-song dai toni goliardici – un “fottiti chola, fottiti Coca Cola” che ha riportato alla mente quanto detto in precedenza da Entrance riguardo una sua canzone dal titolo “We Mus Die” e che il barbuto cantante ha dedicato immediatamente a George Bush -. Ma non è certo finita qua: prima Devendra chiama sul palco qualcuno che sappia suonare la chitarra e gli delega il compito di suonare quello che vuole mentre lui si riposa un attimo – e l’occasione permette a due ragazzi di canticchiare una propria canzone davanti a un pubblico pronto ad applaudire qualsiasi cosa -, poi conclude il concerto facendo salire in scena chiunque ne abbia voglia, distribuendo percussioni e maracas e facendo scatenare una danza, tra urlatori al microfono e un drappello di americane in libera uscita romana. Infine, mentre sul palco si assiste a quello che si può tranquillamente annoverare tra gli eventi collettivi del 2005 decide di renderlo ancora più unico scendendo tra la folla e cantando da lì, avvolto dall’amore di centinaia di persone che lo abbracciano, gli mettono in testa i propri caschi e cercano di coinvolgerlo in balli intimi.
Ecco, a fine serata un’idea di cosa sia la libertà ce l’ho: forse non sarà una soluzione adatta a un dizionario ma mi lascia decisamente soddisfatto, conscio di aver assistito a un evento musicale e sociale allo stesso tempo. Qui ho preferito descrivere l’aspetto sociale, ma solo perché di quello musicale avevo già avuto modo di parlare. Potrei aggiungere a quanto dissi mesi fa il fatto che di fronte a quasi un secolo di cantautorato statunitense questo ragazzo mezzo nordamericano e mezzo venezuelano con nome indiano a carico ha preferito citare Fabrizio De André canticchiando sommessamente il ritornello de “Il gorilla”. Anche Faber era un nome che si legava facilmente al concetto di libertà: forse il cerchio ora si può veramente chiudere.