Share This Article
È opinione generalmente diffusa identificare il punk degli esordi in due categorie geometricamente distinguibili: anglosassone e statunitense. Ma la verità è che in Europa alla fine degli anni ’70 non solo Londra bruciava. E se in Italia la stragrande maggioranza dei mezzi di comunicazione scambiava la musica con la moda – fino al paradosso di far rientrare nel genere di Clash e Ramones la colorata apatia politica di una giovane Anna Oxa Live in Sanremo -, i giovani tedeschi ci davano sotto seriamente, arrivando a fondare a Pankow (l’ex quartiere della periferia nord di Berlino Prenzlauer Berg, laddove iniziò la costruzione del muro che pretendeva di dividere in maniera manichea occidente/oriente, capitalismo/comunismo, buoni/cattivi) una vera e propria comunità punk, talmente celebre e (ri)conosciuta da diventare punto d’incontro e meta per buona parte della gioventù europea inadatta al vivere borghese – ricordate il “Live in Pankow” urlato e incessante di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni? -.
Ma è a Parigi che, lontano dal clamore mass-mediatico d’oltreoceano e d’oltre Manica, il punk continentale tocca uno dei suoi vertici storici. Il nome di Eric Débris probabilmente è destinato a rimanere nell’immaginario collettivo un privilegio per pochi, schiacciato dalla mole imponente dei Joey Ramone, dei Sid Vicious, dei Joe Strummer, dei Pete Shelley, dei Jello Biafra e dei Darby Crash. A cosa è dovuta questa mancanza di notorietà? Sicuramente a diversi fattori: innanzitutto, come accennato sopranzi, Parigi è tuttora la Mecca del can can, del Mouline Rouge e non è considerata capitale del punk, e in secondo luogo la band di Débris fu una delle prime a distaccarsi dal cantato in inglese per riappropriarsi della propria madre lingua. Scelta determinante e assolutamente da non sottovalutare: in un ideale percorso non solo musicale ma anche e soprattutto politico la decisione di cantare in francese assume dei contorni rivoluzionari notevoli.
L’andare contro la forma conservatrice standard (il cantato in inglese) diventa anche la spinta per avvicinare i francesi delle periferie, delle banlieu ai proclami di lotta e di anarchia sociale promulgati dai Metal Urbain; tutti coloro che non hanno mai potuto studiare inglese hanno la possibilità di capire e sentire vicini gli inni di rivolta incisi dalla band. Inni tutt’altro che addolciti o consolatori; nell’incessante corsa disturbata e rumorista di “Panik” Clode Panik (il cantante della band) afferma “Tu braques le président/explose sa gueule/rouge rouge rouge et noir/poupée dégonflée/Panik pouvoir/Panik anarchie” e in “Paris maquis” rincara la dose con lo straordinario ritornello “Assassine l’état dans la poche, je te juge l’état contre moi…fasciste!”. La musica dei Metal Urbain è un particolare incrocio tra i feedback e i fragori chitarristici tipici di un certo punk e la sintetizzazione di suoni che fece la fortuna dei Suicide; in effetti più che a certe evoluzioni del rock’n’roll che esibivano i Ramones e a pastiche transgender in stile Clash il sound di Débris e compagnia si avvicina proprio alle ipotesi di ibridismo tra elettronica e punk di Alan Vega e Martin Rev.
Questa comunione di amorosi sensi diventa inequivocabile allorquando ci si trova a dover fare i conti con una canzone come “Lady Coca Cola”: non è più la chitarra a dettare i tempi e a strutturare l’architettura al di là della ritmica, ma il contrario. Le saturazioni e le improvvise plettrate sono gettate nella mischia del synth e della drum machine e sono costrette a conviverci, mentre il cantato sconfitto e apatico cerca di trovare gli ultimi sprazzi di vita urlando nella reiterazione dell’immagine della dolcezza evocata dal termine “Lady”. Il gioco del contrasto e della negazione dello standard raggiunge il suo obiettivo e lo annienta definitivamente. Spesso e volentieri a fare capolino dalle curve della memoria è il volto di Lou Reed, John Cale, Maureen Tucker e Sterling Morrison, ma dopotutto nel 1978 un riferimento simile sembrava – giustamente – impossibile da evitare; ma raramente nella musica dei transalpini c’è la volontà di rallentare la propria insoddisfazione e di pacificarsi. Nel percorso infernale del 1977/1978 parigino non c’è evidentemente spazio per una “Femme fatale”; quello che era un velluto sotterraneo si è trasformato in un semplice e inequivocabile metallo urbano. Che colpisce al cuore, fragoroso e privo di accondiscendenza. E che forse, ascoltato e compreso nella sua importanza storica, può anche far intuire i prodromi di quella che fu la più esaltante avventura punk nella nostra penisola, ovvero i CCCP – Fedeli alla linea.
Come la regola non scritta della musica vuole, il mito è destinato a estinguersi ben presto se vuole contare su una duratura memoria; così l’avventura dei Metal Urbain da Parigi durò neanche quattro anni, il tempo di alcuni singoli e di questo, eccezionale testamento che è “Les hommes morts sont dangereux”. Ora tutto ciò che la band ha composto è possibile trovarlo in un blocco unico di ventiquattro tracce in “Anarchy in Paris!” – edito dalla Acute Records – che, titolo idiota a parte, è acquisto consigliato veramente a tutti gli amanti della musica. Per provare ad aprire gli occhi al di là di ciò che già si conosce e di ciò che ci è sempre stato raccontato.