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Il mio ricordo di La Spezia è indissolubilmente legato ai tre giorni passati in caserma per le visite di rito in vista di un ipotetico futuro militare (come tutti i nati tra settembre e novembre sarei stato destinato alla marina): ho ben impresso in mente il disprezzo per le regole indiscutibili, per i ridicoli test psicologici, per il sottile razzismo con cui veniva guardata quest’orda di romani in gita coatta fuori porta. E ricordo una città grigia, fredda, mediocre. Nella speranza che gli spezzini non vogliano la mia testa servita su un piatto d’argento, mi accingo a dire che i Morose, tra i vari meriti accumulati sul campo, hanno quello di aver almeno parzialmente modificato l’impressione negativa della città ligure nella mia mente.
Questo nonostante le radici molto poco italiche della loro ricerca sonora: l’attitudine pacata e pacificante che era stata possibile riscontrare già nell’esordio del 2003 “La mia ragazza mi ha lasciato”, nell’indole attuale viene addirittura accentuata, mettendo in mostra un’umoralità malinconica e dimessa. Le marcette e le digressioni al limite del deliquio qui sono praticamente bandite, e hanno lasciato il posto a un’esponenziale scarnificazione dei suoni tesa al minimalismo. Minimalismo come può esserlo quello di un Leonard Cohen agli esordi o del miracoloso Nick Drake di “Pink Moon”: corde pizzicate, tasti accarezzati, accenni di xilofono, percussioni desolate e monotone; musica invernale come lo è quella dei Black Heart Procession, la band contemporanea alla quale è più facile accostare i Morose – ma il gioco di sovrimpressione riusciva meglio nell’esordio. Mauro Costagli, d. Speranza, Valerio Sartori, Federico Moi e Pier Giorgio Storti all’opera seconda (se vogliamo evitare di contare gli EP, gli split ecc.ecc.) mostrano maggior interesse per la ricerca continuata di un mood uniforme, tralasciando la tentazione della girandola di generi; un colore unico ma ricco nella sua completezza piuttosto che un’intera tavolozza per pittori.
Anche a questo scopo lavorano le tracce sonore aggiunte, sprazzi di discorsi, rumori urbani, sussurri e grida (come suggeriva nel 1973 un altro grande creatore di inverni dell’anima come Ingmar Bergman). Non c’è più progressione possibile, solo splendida cristallizzazione. Nel 2003 la mia ragazza mi ha lasciato, oggi la gente ha smesso di chiedermi di lei…domani è un altro giorno.