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Ogni arte ha all’interno del proprio percorso il simbolo della propria, fiera e incontrovertibile, negazione; è così per “contre le cinéma” di Guy Debord, è così per il teatro di Aldo Braibanti, è così per buona parte della pittura e della scultura del secondo novecento. Anche in musica è possibile trovare molti sintomi di questa voglia (necessità) di andare contro la forma precostituita e distruggerla, deturparla, ricondurla a nuova vita – come, se vogliamo estremizzare il discorso, nella profetica identificazione televisiva del “Videodrome” cronenberghiano -: esempio perfetto l’avanguardia (a)sonora di John Cage, ad esempio, a sua volta eccessivamente strumentalizzata e parcellizzata, impedita nella lettura della sua complessità da un bisogno impellente di catalogazione.
Il MEV, acronimo che racchiude per l’appunto la Musica Elettronica Viva, ha avuto la capacità sinottica, sconvolgente e lungimirante allo stesso tempo, di mettere a fuoco con la sola titolazione lo stesso senso della propria avanguardia. Il gruppo si fonda nei primi anni ’60 grazie alle intuizioni di Richard Teitelbaum, Alvin Curran e Frederic Rzewski, puntando tutto sulla capacità performativa “inconscia” della musica: i sedili degli spettatori, a loro insaputa, sono microfonizzati, e quindi i movimenti del corpo, i singulti, i battiti risultano parte integrante della musica messa in scena, fatta anche di urla, strepitii e contorcimenti vari. La musica è dunque elettronica – perché ricreata, non suonata, non tangibile – ed è allo stesso tempo il simbolo stesso della vita, in quanto prorompe, senza possibilità di modificazione e di filtro, dalla stessa corporeità di chi la crea e di chi vi assiste.
Difficile, probabilmente impossibile, in questa sequela di intuizioni, andare a ricercare “l’album” per eccellenza, almeno nell’idea comune che si ha della registrazione in studio. Molti testi critici tendono a prediligere l’esordio “Spacecraft”, probabilmente indotti in questo dalla necessità di preservare l’originalità e dunque di trovare spazio nei percorsi teorici solo per ciò che è arrivato prima, per ciò che può permettersi, cronologia alla mano, di essere inattaccabile. Il realtà l’apice dell’esperienza collettiva del MEV si raggiunse nei due lavori successivi, “Friday” e “The Sound Pool”; mentre gli strascichi prettamente socio-politici navigavano parzialmente alle spalle – con l’estate furente del ’68 già costretta a riassestarsi nella memoria – l’etica musicale e la sfida aperta all’istituzione dimostravano la loro capacità di sopravvivenza, anzi di più la loro urgenza di vita.
Non era pura rappresentazione del disagio collettivo, era vera e propria pulsione di una distruzione sistematica della struttura predeterminata: di origine cageana, come si ha già avuto modo di dire, ma non solo. La musica naturale, perché mutuata dai ritmi e dai suoni propri della “natura” (intesa sempre nella sua negazione del filtro e della ricostruzione in studio), si sposa con l’avanguardia jazz e non è difficile accostare il nome del terzetto – per semplificare, visto che in realtà si dovrebbe parlare di collettivo di uomini, nel quale circolarono personaggi come Michael Blake, Jean-Marie Poiret, Barbara Bryant, Alberto Grifi, Gianfranco Baruchello, Giordano Falzoni – e soprattutto il nome di Alvin Curran a Giacinto Scelsi. Roma, nella sua vitalità avanguardista del decennio (capitale dell’avanguardia quanto e più di New York, a ben vedere, visto che personaggi come Carmelo Bene, il già citato Grifi, Mario Schifano, non avevano nulla da invidiare alla Lower East Side) si adatta alla perfezione e diventa la città del MEV.
“The Sound Pool” presenta quattro tracce non particolarmente distinguibili registrate dal vivo nelle quali, al di là delle percussioni, della tromba rotta di Curran e di altri boati, prende possesso della creazione il pubblico presente all’evento (grazie allo stratagemma dei microfoni di cui si parlava all’inizio dell’articolo). I riflessi jazz e la strenua ricerca del suono si mischiano dunque a quello che diventerà uno dei marchi distintivi dell’etichetta; l’interesse per le musicalità “altre”, estranee al marketing occidentale – dove occidente assume una connotazione più economica che geografica – e alle consuete direttrici sonore. Da qui nascerà lo studio sui canti tibetani di Teitelbaum, ad esempio, o anche lo straordinario lavoro solista di Curran “Canti e vedute del giardino magnetico”. Ma lì saremo già, probabilmente, in un altro mondo.
Avvicinarsi al MEV e alle sue creazioni è impegno non da poco, vista la complessità dell’ascolto, ma è anche una sfida necessaria per qualsiasi musicofilo attratto dalle sirene – spesso ben più standardizzate di quanto si possa immaginare – dell’avanguardia. Perché anche oggi c’è la necessità di capire come la macchina (elettronica) abbia la possibilità di dimostrarsi calda (dunque viva): questo l’aveva intuito e messo nero su bianco anche un certo Frank Zappa nel suo testamento musicale “Civilization Phaze III”. Ma questa è un’altra storia, ed è stata già raccontata (almeno su Kalporz).