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E fu così che gli Oasis passarono al lato oscuro della forza. E quale potrebbe essere questo “lato oscuro” per un gruppo che ha sempre fatto dei Beatles i suoi portabandiera? Ma ovviamente i Rolling Stones. Non ci si crede? Beh, effettivamente si sta un po’ estremizzando, ma il riferimento ai Darth Vader del rock (sì sì, i Beatles erano buoni, i Beatles erano giusti, i Beatles erano certamente degli Jedi…) calza a pennello per far capire che il nuovo “Don’t Believe The Truth” potrebbe riservare delle sorprese a chi vi si approccia con il consueto (e giustificatissimo!) timore di trovarsi davanti la solita prova Lennon-McCartney oriented dei Fratelli Tispaccolafaccia, come impagabilmente li definì Max Cavassa qui su Kalporz.
Diciamo che gli Oasis hanno ampliato il loro raggio d’azione (il loro raggio di copiatura, potrà dire qualcuno senza errare troppo) utilizzando registri alla Mick Jagger & soci in pezzi come “The Meaning Of Soul” o “Mucky Fingers” (in quest’ultima c’è anche qualcosa dei Velvet Underground e tanto Dylan…), diventando più essenziali, meno autoreferenziali e, in fondo in fondo, più simpatici. Sempre che “simpatici” sia un vocabolo realmente utilizzabile per i Fratelli Gallagher, del che si continua a dubitare. Ma noi li giudichiamo per la musica, e in quella comunque gli Oasis ci capiscono qualcosa al di là delle loro spocchiose dichiarazioni di “essere ancora la miglior band del mondo che se qualcuno vuole questo scettro se lo venga a prendere, noi non lo molliamo!” (Liam intervistato su Radio 105 in occasione dell’ultimo concerto di maggio a Milano).
Chi scrive aveva apprezzato la svolta effettistica di “Standing On The Shoulder Of Giants” (2000), tentativo di cambiare qualcosa nel sound ormai riverso su se stesso alla “What’s The Story…”. Ma lì non c’erano delle grandissime canzoni. Qui in “Don’t Believe…” invece, senza gridare ad alcun miracolo, si è dalle parti di un accettabile prodotto concreto, globalmente riuscito come progetto senza troppi fronzoli, con molta chitarra acustica che tanto le canzoni degli Oasis sono sempre state fatte per essere suonate davanti ad un fuoco con una chitarra acustica, appunto.
Del tutto ascoltabili sono le melodie di “Keep The Dream Alive”, di “Love Like A Bomb” (qui ad essere citati sono i Coral e – udite udite – i Coldplay, Liam canta uguale uguale a Re Acquaesapone Chris Martin), di “Part Of The Queue” (con un tempo di pennata alla “Breaking The Girl” dei Red Hot) e, soprattutto, di “Let There Be Love”, un titolo che è già un programma per capire che è il pezzo più vecchi Oasis, quelli che in fondo ti piacciono perché ti riportano a quando cantavi sognante “Champagne Supernova”, a quando magari tanti rocker di adesso andavano ancora alle elementari.
Un disco spiazzante, alla fin fine. Ci si era premuniti ben bene di guantoni per massacrare la solita prova opaca ed uguale a se stessa del gruppo di Manchester, ci si deve ricredere. Lo si fa volentieri. In definitiva basta non ascoltarli quando fanno le interviste, e farlo solo quando cantano dentro al lettore: nel mondo delle note gli Oasis hanno, volenti o nolenti, ancora un senso.