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Dietro alla maggior parte dei dischi per cui i critici usano termini come “paesaggi sonori”, “rarefazioni” o “dilatazioni strumentali”, spesso si nascondono noia e riproposizioni di cliché post-rock che sono ormai diventati talmente comuni da risultare stucchevoli. Anche questo “Flares”, debutto sulla lunga distanza dei genovesi Port-Royal, rischia, ad un ascolto distratto, di essere liquidato come la versione nazionale dei silenzi mistici dei Sigur Ròs o delle atmosfere glaciali e sospese di molte band islandesi; eppure, questo disco sa essere speciale.
Provate ad ascoltarlo di notte, e ad interrompere improvvisamente il flusso sonoro spegnendo lo stereo: la vostra stanza sarà invasa da una sensazione quasi fisica di vuoto improvviso. Quelle impercettibili variazioni nella trama strumentale, e quelle stratificazioni di chitarre e di delay trasparenti, sanno creare una densità incredibile, ed è questa la magia di “Flares”: costruisce una prigione di suono robustissima, nonostante sembri sempre sul punto di spezzarsi.
La voce umana non compare quasi mai, ed è un bene: non è un suono cantabile, questo, ma una musica descrittiva, fatta di silenzi contemplativi e di rarissime esplosioni impercettibili; lascia piuttosto spazio ad un’elettronica sottile che richiama gli ambienti dei Boards Of Canada, a strumenti che si saturano all’improvviso (le chitarre e la batteria, rispettivamente nel secondo e nel terzo movimento della suite “Zobione”), a uno shoegazing sfilacciato all’inverosimile.
“Flares” è fatto di un suono a cui non siamo abituati: impalpabile come nebbia; immobile e impenetrabile come ghiaccio eterno; immaginifico come qualcosa creato da chi cerca di dipingere paesaggi stupendi avendo davanti una realtà da cui fuggire.