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Decisamente curioso come certi artisti o gruppi qui praticamente sconosciuti risultano essere dei piccoli fenomeni di culto in madrepatria e in altri insospettabili paesi. Per dire: alzi la mano chi prima di oggi conosceva gli americani Richmond Fontaine. Ok. Partiamo dal principio. Gruppo retto dal leader e compositore Willy Vlautin, i Richmond Fontaine si muovo all’interno dell’immenso panorama dell’alternative-country che sta imperversando gli stati del midwest statunitense. Cinque dischi in sette anni che hanno ricevuto un buon riscontro di critica e un certo consenso popolare in una nicchia che (soprattutto in Inghilterra – chi l’avrebbe mai detto? – dove il mensile Uncut dedica fior di servizi alla band) si dimostra fedele ed attenta.
“The Fitzgerald” è il loro sesto disco – il primo per la Decor Records – e da un lato ritorna sulle traiettorie acustiche degli esordi (il precedente “Post To Wire” era molto più robusto e rock) mentre dall’alto rappresenta una piccola evoluzione del sound, perché nonostante si giri tra coordinate note e stranote, punta ad un’asciuttezza strumentale che per loro rappresenta un caso mai provato: nessuna pedal steel, nessuna distorsione. Arrangiamenti scarni in canzoni incentrate sui testi, testi che partono da scorci autobiografici di Vlautin – come “Wellhorn Yards” – per diventare storie di vita comune, di tutti i giorni, che si sviluppano nel piccolo mondo creato dal loro autore per diventare qualcosa di personale e riconoscibile.
Scritto interamente in un hotel casinò di Reno (il Fitzgeral Hotel, per l’appunto), questo disco dimostra personalità, carattere e forza di volontà. Speriamo quindi che gli appassionati possano recepire questo messaggio e far arrivare anche da noi una voce calda ed emozionante che racconta le sue storie di tutti i giorni sempre uguali ma sempre parimenti affascinanti.