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In una storia dell’arte che va via via stratificandosi, aprendo nuove vie sotterranee e rimodernando i tracciati già esistenti per potersi comunque conservare comodamente viene abbastanza naturale immaginare nei percorsi della musica contemporanea una componente corposa di passatismo. E non che si debba sempre obbligatoriamente leggere il termine nella sua accezione negativa e spregevole: Iron & Wine ha ad esempio mostrato un conservatorismo musicale di tale classe e nitore da perdonargli la mancanza di innovazione. Nessuno qui pretende il futurismo tout court, né mi sogno di promulgare legislazioni contro il recupero di modelli e stilemi passati: eppure, nondimeno, mi trovo a osservare la macerazione in sé e la mancanza di interesse di un lavoro come “Language. Sex. Violence. Other?”, ultima fatica degli Stereophonics.
Lontani dalla rotondità e dalle rilassate atmosfere di “You Gotta Go There to Come Back” i Nostri (?) cercano di mettere in piedi un lavoro ricco di spigoli, angoli ben poco levigati. Atmosfere vagamente ansiogene, dunque, lingua sferzante ecc. ecc. Peccato che la pietra di paragone sia a due facce: o l’invettiva sguaiata e mediocre tipica degli Oasis – figura cancerogena per l’intero movimento britannico degli anni ’90 – come testimonia un brano della fattura di “Brother”, o l’epica degli U2 attuali. A voler essere gentili si potrebbe ipotizzare che l’ingenuità abbia portato alla scelta di modelli così fortemente codificati e metabolizzati, tristi riflussi di un movimento musicale spasmodico.
Insomma, mentre il resto del mondo ha da sette mesi e passa festeggiato il 2005 gli Stereophonics sembrano vivere ancora nel 1993 – e sì che un suono del genere sarebbe risultato vetusto anche all’epoca! -. Il risultato è un album che si lascia ascoltare molto faticosamente, nonostante una ricerca della melodia continua e imperturbabile: brani come “Dakota”, “Doorman”, “Girl” sono la dimostrazione di un vuoto creativo apparentemente incolmabile il che non può che portare, come immediata conseguenza, a una sensazione di noia diffusa. La verità è che il Linguaggio di questo lavoro è, come ho già avuto modo di dire, completamente sorpassato, il Sesso sarà anche uno dei temi prediletti ma la sensualità presente è prossima allo zero, la Violenza nulla in confronto ai concetti che si sono sintetizzati sonoramente negli ultimi trent’anni – un secondo e mezzo di Johnny Dowd seppellisce le tracce presenti qui dentro, tanto per dirne una -.
Resta, ovviamente, l’Other seguito dal punto di domanda; cos’è allora quest’altro nel quale cercare un minimo appiglio di senso? C’è da salvare qualcosa nella melodia ossessiva di “Deadhead” e soprattutto nella stasi in odore di esplosione di “Feel”, ma è veramente ben poca cosa. Non c’era alcuna pretesa di scoprire avanguardia nelle intenzioni degli Stereophonics né di eleggerli capifila del Mainstream pop-rock, ma sinceramente non era neanche possibile aspettarsi un lavoro così sciatto e inutilmente lungo, anche perché partorire una creatura del genere proprio durante l’esplosione dei vari Franz Ferdinand, Bloc Party e Kaiser Chiefs ha del suicida.
C’era chi ebbe l’occasione di dire che l’arte “è per il 20 % ingenuità, per il 30 % ispirazione e il resto è tutto da attribuire al caso”. Io, allora, cercherò di essere gentile: tralasciando ispirazione (nulla) e ingenuità (riposta male, come detto sopra) c’è da dire che Kelly Jones e compagni non hanno la dea bendata dalla loro parte. Purtroppo per loro.