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Partendo del folk che tanto sembra piacere di questi tempi, Vetiver esplora un orizzonte tanto psichedelico quanto bucolico, ispirandosi da un lato all’attitudine free dei Grateful Dead, dall’altro alla spensieratezza acustica del primo Marco Bolan, condendo il tutto con arrangiamenti a metà tra il prog più delicato e il sempre più presente “pre-war”. Andy Cabic – tenutario unico di questo vero e proprio progetto aperto – scrive ed arrangia undici suggestive ballate che, nonostante una certa omogeneità di fondo, riescono a colpire per freschezza ed ispirazione.
La cosa curiosa del progetto Vetiver non è tanto la musica in sé, ma la filosofia del gruppo: quasi fosse una comune anarco-freak dove reduci dell’era hippy si riuniscono per suonare all’infinito per il solo piacere di farlo. Naturale quindi trovare gente come Devendra Banhart – che con Cabic suona anche in concerto, dove la freakitudine dei ragazzi emerge in tutta la sua divertente ed anacronistica retorica – e Joanna Newsom intenta a dipingere arpeggi acustici in canzoni come “Amerilie”, “On a nerve” e “Without a song”. E se aggiungiamo poi un paio di reduci “di lusso” come Colm O’Ciosoig (My Bloody Valentine, quanto di più distante possa esserci da questo carrozzone sospeso tra il Messico, Fillmore East e la foresta di Sherwood) e Hope Sandoval (Mazzy Star, idem come sopra), facciamo quadrato attorno ad un disco che sa esprimesi al suo meglio, senza leziosismi o manierismi, con una musica affascinante che sa ispirare paesaggi aperti ed infiniti.
A cuor leggero e senza eccessive pretese, le canzoni di Vetiver danno l’impressione di essere adatte ad ogni situazione e se ci pensate bene, non è cosa da poco.