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Più di cinque secoli fa, i primi inglesi partirono per il Nuovo Mondo, cancellandone la cultura e rendendo inesistente il loro passato; oggi, dopo tutto quel tempo, assistiamo al percorso inverso: è dagli Stati Uniti, dalle tradizioni che hanno dovuto reinventarsi, che parte tutto quanto e si mescola ai modi di suonare delle differenti culture locali.
Se mai servisse un esempio pratico di tutto questo, ecco gli Alabama 3: inglesi cresciuti nel mezzo dei rave degli inizi degli anni ’90 che, assorbita l’elettronica multiforme di quel periodo, si infatuano della più tradizionalista delle musiche americane, il country. Basta la traccia iniziale di questo “Outlaw”, il terzo disco della band, per immaginare un treno su cui viaggia lo spirito di Johnny Cash invitato dagli Orb ad unirsi alle danze: suona bizzarro, suona astruso. E vuole suonare esattamente in questo modo.
Se, però, il debutto del 1997 “Exile on Coldharbour Lane” era un ibrido eccitante nella sua fusione di gospel, blues, country, ambient e house, “Outlaw” suona molto più tradizionalista e con gli occhi rivolti al passato, e non basta l’intelligente gioco di parole di “Last train to Mashville” (unione tra l’ultima frontiera del pop elettronico, il mash up, e la città simbolo del country, Nashville) ad intrigare: questo è uno dei casi in cui la formula sonora scelta è talmente particolare ed originale da fornire pochi sbocchi evolutivi, e a portare ad un inevitabile invecchiamento rapido.
Certo, “Outlaw” è pur sempre un disco divertente ed originale quanto basta, e il dedicare il disco ai fuorilegge è un modo di portare avanti un discorso politico mai estraneo alla musica degli Alabama 3; ma è tutto un po’ logoro, e certi omaggi (come quello a Johnny Cash) appaiono più come scontati pro-forma che sentite riverenze.