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di Daria Pomponio
Ispirandosi alla mitica avventura on the road di William Least Heat-Moon, o forse, più direttamente, alle celeberrime vie secondarie tracciate in blu sulle vecchie mappe stradali degli U.S.A., gli organizzatori del festival romagnolo Strade blu. Percorsi nel folk contemporaneo (www.stradeblu.org) hanno dato vita ad una strepitosa seconda edizione. Davvero incredibile la varietà del palinsesto che annovera tra gli altri Elliott Murphy, Willard Grant Cospiracy, Steve Wynn, Devendra Banhart, e fa venir voglia di trasferirsi per l’intera durata dell’evento in questi luoghi ameni (Faenza e dintorni), ma allo stesso tempo crepuscolari e oscuri come solo la provincia italica sa essere, specie in un’uggiosa serata estiva.
La presenza dei due Superwolves Will Oldham aka Bonnie “Prince” Billy e Matt Sweeney è senz’altro uno dei concerti più attesi della kermesse e sorprende trovare invece un clima così raccolto e ospitale, perfetto per le sonorità post-folk del duo statunitense e per un pubblico in gran parte nomade, desideroso di ristoro, musicale soprattutto, ma non solo. Lo scenografico cortile settecentesco del Teatro Masini di Faenza, adiacente alla splendida cornice della Piazza del Popolo, accoglie così i fan della coppia religiosamente assisi su poltroncine in plastica e pronti a farsi travolgere dalle liriche del cantautore di Luisville e dalla vigorosa chitarra di Sweeney.
L’apertura della serata è affidata alla brillante autoironia ad Howe Gelb, ex Giant Sand, che sale sul palco con la figlioletta sulle spalle, perché sia chiaro che la sua è una musica che anche un bambino può fare. Peccato che la svogliata creatura non abbia alcuna intenzione di cinguettare nel microfono, preferisce di gran lunga dedicarsi al suo piccolo pollice, così il padre la recapita nelle braccia materne e dà inizio al concerto, uno strepitoso “one man show”. Gelb si muove sul palco come un navigato mattatore: suona la chitarra e alternativamente il piano, canta in due diversi microfoni dai differenti effetti vocali, chiacchiera col pubblico, ammicca e ridacchia sornione, mentre inanella canzoni a seconda delle decadi, da tre decadi fa fino a fra dieci anni nel futuro. E per non smorzare il crescendo, il cantautore di Tucson, Arizona, conclude l’esibizione con la sua “love-letter” per gli ex compagni d’avventure, i “traditori” Calexico, un pezzo “politico” che ripete sarcastico “it’s a classico”.
Dopo una breve introduzione ad opera di uno degli organizzatori del festival, salgono sul palco le star della serata: Bonnie “Prince” Billy e Matt Sweeney, accompagnati dalla loro band. Fin dal primo brano appare evidente come Will Oldham sul palco si trovi perfettamente a suo agio compensando la paranoia di un inquieto Matt Sweeney, dapprima agitato per la repentina rottura di una corda, poi vistosamente a disagio con la sei corde offertagli da Will; infine, rassicurato dal compagno, Matt ha re-impugnato il suo amato strumento (una Les Paul), e, allo scadere del terzo brano, i due finalmente hanno cominciato a “cavalcare” insieme. Peccato dunque che i primi tre pezzi (se la memoria non mi inganna trattavasi di canzoni dei Palace) siano stati funestati da una cacofonica asincronia del gruppo; mentre infatti Sweeney combatteva alternativamente con le due chitarre, l’imberbe batterista picchiava sui tamburi come se nulla stesse accadendo, ovvero come se dalla lead guitar provenisse il suono pieno che le compete anziché poche note striminzite e svogliate. Del tutto avulso dal dramma del compagno, anche Will proseguiva per la sua strada interpretando i suoi vecchi pezzi, talmente distanti nel tempo, che doveva leggerne il testo su un foglio posto ai piedi del microfono.
Senza scomodare un facile (e inopportuno, in questa sede) paragone con i suoi trascorsi come attore (da Matewan di John Sayles, alla collaborazione con Harmony Korine, fino alle recenti interpretazioni in alcune produzioni indipendenti), possiamo affermare senza remore che Will Oldham è un esuberante protagonista, un virtuoso del palcoscenico che si lascia ispirare dalle proprie liriche strutturando per ogni pezzo l’interpretazione più appropriata. Come se non fosse sufficiente la straziante poesia delle parole e l’intreccio di innocenza e sessualità esplicita delle storie che racconta, ecco che ogni brano è reso più incisivo dalla sua presenza fisica, un angelo biondo e barbuto dall’esile figura, ma dalla tonda pancetta.
Mentre la sua sapiente gestualità accompagna una versione lentissima e straziante di “I See A Darkness“, l’appagamento spettatoriale sembra raggiungere il suo culmine, ma lo show procede e la band rivisita alcuni brani dell’ultimo lavoro “Superwolf“, disarmanti e poetici, talvolta ironicamente surreali. “My Home is the Sea”, accompagnata da pose in stile “vecchio lupo di mare” è memorabile, e non possono mancare, dato il tema dell’evento, due splendide ballate folk da “Master and Everyone“: “Three Questions” e “Wolf Among Wolves”, inni laceranti per un’America perduta.
Quando la musica si arresta, resta netta l’impressione di aver visto e ascoltato un grande interprete di se stesso, un vagabondo solitario dedito soprattutto ai propri percorsi interiori, piuttosto che alla coesione della band, un ornamento trascurabile mai sufficientemente appropriato al suo ruolo di leader. Come dimostrano i suoi numerosi pseudonimi (da Palace, Palace Brothers, Palace Music a Bonnie “Prince” Billy), e le sue innumerevoli collaborazioni, Will Oldham attua da anni una rielaborazione intensa e personale di temi e melodie del folk americano e allo stesso tempo della propria multiforme personalità, un’identità sola non basta.