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1989: “Pretty Hate Machine”.
1992: “Broken” (EP).
1994: “The Downward Spiral”.
1999: “The Fragile”.
Fino a pochi mesi fa Trent Reznor poteva tranquillamente e a ragion veduta essere considerato lo Stanley Kubrick della musica, o anche il David Lynch – con il quale non a caso aveva collaborato all’epoca di “Lost Highway” -. Come i due celebri cineasti viveva una vita solinga, misteriosa e pubblicava poche opere, tutte a straordinari livelli di eccellenza. Fino a pochi mesi fa, per l’appunto: perché un lavoro banale e sciatto come “With Teeth” i registi citati non lo avevano mai sfiorato. Neanche il Kubrick inesperto e pesantemente metaforico di “Fear and Desire”, neanche il Lynch sottovalutato di “Hotel Room”.
Perché l’ultima fatica partorita dalla mente geniale di Reznor è francamente inqualificabile. Ho provato in tutti i modi a cercare un punto di appoggio che potesse salvare “With Teeth” dalla bocciatura più totale, ma è stato inutile: chi cerca di nascondere le pochezze dell’album dietro la scusa della classe casca male, a meno di voler considerare di classe una canzone agghiacciante come “The Collector”. D’altro canto chi si arrampica sugli specchi definendolo “l’omaggio di Reznor alle melodie pop” prende un parziale abbaglio; l’album è effettivamente uno dei più melodici della sua ristretta discografia ma questo non equivale automaticamente a un pregio. Di fatto, le melodie presenti nel seguito di “The Fragile” sono monche, prive di qualsiasi forza come espone prepotentemente “The Hand That Feeds”, scelto come singolo di lancio e paradigma della postura contorta di Reznor che qui appare come l’Eddie Vedder più banale visto in circolazione.
Difficile dunque comprendere il perché di un lavoro del genere, visto e considerato che di tempo a disposizione il simpatico Trent se n’era preso a sufficienza per partorire un doppio di ottimo livello: verrebbe naturale ipotizzare l’esaurimento delle scorte d’inventiva, anche fisiologico ma che a questo punto ci metterebbe davanti alla necessità di considerare l’uomo/Nine Inch Nails come niente più che una splendida meteora. È abbastanza netta la sensazione di trovarsi di fronte a un clone malriuscito di “The Fragile”, musica continuamente ritorta su se stessa, del tutto priva di originalità e anche incapace di straziare e squarciare i veli della normalità come eravamo abituati ad ascoltare. Qui tutto suona falsamente pacificato, encefalogramma piatto che copre come una coperta protettiva la genialità di un tempo; a tratti è possibile commuoversi e lasciarsi trascinare via da “Right Where It Belongs” (sicuramente il miglior brano del lotto), ma anche in questo caso sembra venire meno il tassello fondamentale per concludere il mosaico. E quando lo sguardo diventa retrospettivo (“Only”, “You Know What You Are”) la puzza di stantio e di marcio si fa insostenibile.
Avrei voluto salutare il ritorno sulle scene dei Nine Inch Nails dopo un’assenza di sei anni con peana e grida di giubilo, mi trovo costretto a storcere il naso e a bocciare, senza dare possibilità di replica. Aspetterò con pazienza il nuovo lavoro di Trent Reznor, ma forse sarà l’ultima possibilità concessa. Nella speranza – certezza? Non più purtroppo – che non mi deluda ulteriormente.